Si chiama Daniela Goggi, non è italiana ma argentina, è una regista cinematografica e televisiva di grande successo e si vede per il linguaggio forse standard ma sempre nitido e incredibilmente efficace usato nel trascinante El Rapto (Orizzonti Extra) 95 minuti che cominciano con la promessa di un nuovo avvenire e finiscono con la certezza che il futuro sarà lungo e ancora lastricato di sangue.
Siamo nel 1983 infatti, la dittatura militare è finita, il paese ufficialmente è tornato alla democrazia, ma le ombre lunghe di quel periodo infame continuano ad allungarsi sul paese. Se ne accorgeranno i membri della vasta e facoltosa famiglia Levy, nome fittizio, il libro è ispirato all’autobiografico El salto de papà di Martìn Sìvak, dedicato a uno dei sequestri più celebri degli anni Ottanta, quello appunto di George Sivak.
Un bersaglio ideale
Ebreo, di sinistra, a capo di un piccolo impero finanziario, il rapito era il bersaglio ideale per quegli uomini di mano a cui negli anni della Giunta era toccato il lavoro più sporco, militari, poliziotti, uomini dei servizi segreti, detti con formula ripugnante “manodopera disoccupata” negli anni del ritorno alla democrazia, e dediti a sequestri, estorsioni, vendette, assassinii eseguiti per ragioni politiche o semplicemente a fini di lucro.
Un sottobosco fangoso, impenetrabile e letteralmente impastato di sangue e terrore con cui il fratello del rapito e gli altri membri della famiglia saranno costretti ad avere a che fare prima di rassegnarsi all’evidenza: i membri del governo Alfonsìn, ministri, alti ufficiali, sottosegretari, sbrigafaccende non meglio identificati, non hanno nessun interesse a trovare i rapitori, a cui per una serie di ragioni inconfessabili devono lasciare mano libera. Anzi forse sono direttamente collusi con loro.
Tanto che i poveri Levy sono costretti a ungere le ruote di un fantomatico gruppo di investigatori “privati” che oltre a non fornire nessun aiuto e nessuna prova concreta circa la salute del sequestrato chiedono continuamente “dazioni”, come si direbbe in Italia, per fare il loro sporco lavoro.
Dentro il clan, con dolore
Aprendo strappi sempre più laceranti nel tessuto affettivo, finanziario e familiare dei Levy/Sivak come El Rapto racconta scegliendo di restare sempre dentro quel clan, unito ma composito, e presto dolorosamente diviso di fronte a un dramma che si prolunga nel tempo.
Niente concessioni, nessun addolcimento, niente note di colore a illuminare un quadro di spietata cupezza se non l’uso magistrale dei punti di vista interni al racconto. Accanto a Julio, il fratello del rapito che si carica sulle spalle il peso maggiore di quelle trattative sfibranti, compaiono infatti l’anziano padre, finanziere comunista, o così si dice, ma tutt’altro che incline alla filantropia (come sottolinea lui stesso, “non siamo il primo governo Peròn, non farò mutui agevolati per le prime case”), la moglie del rapito, sempre più travolta dal dolore e dai dubbi sull’operato di suo cognato, i figli di Julio che origliando e spiando i grandi capiscono più del dovuto.
Ma anche i dipendenti del gruppo finanziario, gli altri soci, gli esponenti della nuova classe politica che si frappongono silenziosamente ma ostinatamente e senza vergogna alle indagini sulla sorte di quel miliardario ebreo di sinistra.
El Rapto, nessun colpevole
Se ne esce scossi, da El Rapto, per quanto ci si possa credere informati su tutto ciò che accadde nell’Argentina di quegli anni e oltre, tanto più che una didascalia finale ci ricorda come crimini di quel tipo fossero molto comuni allora e anche molto oltre, e come quasi nessuno dei colpevoli, neanche in seguito, sia stato assicurato alla giustizia. La prospettiva familiare a ben vedere non era solo la più feconda dal punto di vista narrativo. Era anche la più conveniente, la meno esplosiva sotto il profilo politico e sociale.
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