Il protagonista di Árni è l’unico che non appartiene alla famiglia del circo per cui lavora. È un ragazzo magrolino, riservato, che non riesce a crearsi dei legami. Finché non incontra un pitone, che cercherà di addestrare per uno show itinerante: un animale pericoloso, esotico e bellissimo, con cui instaura un rapporto estremamente fisico.
È un’opera di una vulnerabilità struggente, quella della regista ungherese Dorka Vermes, tra i tre titoli a micro-budget (200.000 euro) della Biennale College Cinema, presentata in anteprima all’80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
È vero che per il protagonista, Árni, si è ispirata a un suo amico?
Sì, Péter Turi, che interpreta il protagonista. Siamo stati a scuola insieme per quattro anni. L’ho sempre trovato un personaggio affascinante. Ma lui e Árni non sono la stessa persona. Abbiamo avuto lunghe conversazioni al riguardo. Alcune le ho anche registrate. Inizialmente pensavo di ambientare Arnì all’interno di una scuola superiore, poi ho pensato che l’atmosfera del circo fosse più adatta.
Perché?
Durante il workshop mi ripetevano che il circo è un luogo comune del cinema, ma ad essere onesta non ricordo così tanti film che lo abbiano usato come location principale. Volevo che la mia storia si svolgesse in un ambiente kitsch. Ho osservato alcuni circhi itineranti: per alcuni performer far parte di un circo significa essere artisti, per altri no. È un lavoro che si eredita, come un posto in fabbrica. Árni è un estraneo all’interno di un circolo chiuso.
Come ha lavorato con gli animali?
Avevamo degli addestratori che si assicuravano costantemente che fosse tutto a norma. Alcuni animali provenivano davvero dal circo, come i cavalli o i cani. Di serpenti ne avevamo due: uno da circo, l’altro no.
Cosa rappresenta il serpente in Arnì?
Proprio perché Árni non fa parte della famiglia del circo, volevo che costruisse una relazione con qualcos’altro. Non ha gli strumenti per avere una normale relazione intima, o romantica: avevo bisogno di un animale che non fosse come gli altri. Qualcosa di esotico, complesso, pericoloso e bellissimo.
La vulnerabilità è un tema del film?
È fondamentale. È ciò che voglio trovare ogni volta in un film, nella storia, nel protagonista o nella regia. Non mi interessa l’aspetto intellettuale. Per me l’opera d’arte che ha valore è quella che contiene qualcosa di personale.
Come è stato lavorare con Biennale College?
È un workshop lungo e complesso, ma è l’ideale, soprattutto considerando lo stato dell’industria nel mio paese. L’Ungheria è incasinata dal punto di vista finanziario ed è un bene sapere che ci sono opportunità come Biennale College. Anche perché altrimenti, a meno che tu non faccia parte dell’oligarchia politica, puoi fare ben poco.
Cosa significa produrre un film a micro-budget?
È uno sforzo psicologico, fisico ed emotivo. Ma è, insieme, qualcosa di miracoloso. Il vero nemico è il tempo. Ciò che mi ha aiutato è stato avere dei partner creativi fantastici, che credevano fermamente nel progetto.
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