Siete donne, siete francesi, fate film? Venite a Cannes, vincerete la Palma, girerete il mondo. La Palma d’oro del 76esimo festival di Cannes è andata ad Anatomia di una caduta di Justine Triet, normanna, classe 1978. È una Palma giovane, esattamente come quella andata nel 2021 a Julie Ducournau per Titane, che quest’anno era in giuria.
Ci sbilanciamo senza problemi: né l’uno né l’altro film entreranno nelle storie del cinema, ma intanto si conquistano la cronaca e i mercati internazionali, perché vincere a Cannes è importante, apre molte porte, assicura una distribuzione mondiale e un futuro radioso.
Una dinamica bizzarra
Anatomia di una caduta si svolge quasi tutto in un’aula di tribunale. Sandra (l’attrice tedesca Sandra Huller, protagonista anche di The Zone of Interest) deve difendersi dall’accusa di aver ucciso il marito. I due vivevano insieme in una baita di montagna sopra Grenoble. L’uomo è stato trovato morto dopo una caduta dal terzo piano. In casa c’era solo la donna, e la dinamica della caduta sembra bizzarra, tanto da indurre gli inquirenti a sospettare l’omicidio.
Per due ore e mezza, Justine Triet e il suo co-sceneggiatore Arthur Harari ci portano nelle minuzie procedurali di un processo che a noi italiani può ricordare il famoso delitto di Cogne, anche se qui non c’è di mezzo un bambino e tutto sembra indicare l’innocenza della donna.
Avete capito: Anatomia di una caduta è un perfetto film da dibattito, il cui destino più ovvio è una bella prima serata televisiva (Bruno Vespa ci andrebbe a nozze).
La faccia di Glazer
Che un film del genere vinca Cannes è obiettivamente un’esagerazione, ma ci siamo abituati. Stenterà ad abituarsi, invece, l’inglese Jonathan Glazer, che è entrato Papa in conclave e si è ritrovato cardinale: tutti mormoravano che la Palma d’oro fosse sua, ed effettivamente The Zone of Interest (dal libro di Martin Amis) ha valori cinematografici infinitamente superiori, ma il tema forte (la vita quotidiana degli aguzzini di Auschwitz) non è bastata. Quando l’hanno chiamato a ricevere il Grand Prix (secondo premio del palmarès) ha fatto una faccia che era tutta un programma.
A noi, vecchi bucanieri cannensi, questo verdetto sa tanto di grandeur francese al lavoro: forse, dopo la sconfitta ai rigori contro l’Argentina ai Mondiali di calcio urgeva un risarcimento.
Niente da dire sui premi alla turca Merve Dizdar, splendida attrice del verbosissimo Le erbe secche di Nuri Bilge Ceylan, e al giapponese Koji Yakusho, che invece in Perfect Days di Wim Wenders dirà sì e no dieci parole. Si recita con la voce e si recita con il corpo: potremmo dire che il verdetto copre tutto l’arco istituzionale di questa meravigliosa arte.
Solo il Prix du Jury ad Aki?
Molto da dire sul minuscolo Prix du Jury a Kaurismaki, ma ce la caveremo con una sola parola: vergognatevi. Era meglio non dargli nulla, e bene ha fatto il genio finnico a rimanersene a casa. Il premio alla regia a Tran Anh Hung, per La passion de Dodin Bouffant, è invece un altro capitolo della suddetta grandeur: il film è una puntata ottocentesca di Masterchef, con due grandi gourmet (Benoit Magimel e Juliette Binoche) impegnati per oltre due ore in raffinatissime ricette. Si esce dal film con il colesterolo a 400, ma l’eleganza della messinscena è innegabile.
A proposito di eleganze, le uniche vere emozioni della cerimonia le hanno regalate Jane Fonda e Roger Corman: 85 anni lei, 97 lui. Non sarà più un cinema per vecchi, ma di fronte a simili monumenti, il brivido c’è. Per la cronaca: quando Corman era giovane, e riempiva i drive-in con i suoi film di genere, a Cannes non l’avrebbero fatto nemmeno entrare. I tempi sono cambiati. Se in meglio o in peggio, chissà?
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