Prima di indagare Killers of the Flower Moon, bisogna fermarsi un attimo, tornare indietro al momento in cui le luci in sala si riaccendono e questo mostro magnifico (3 ore e 26 minuti) si deposita. Lentamente com’è venuto. Quello che conserviamo negli occhi è un oggetto animato da una forza quieta, un’attrazione ‘di fiere’, un’opera di terribile bellezza, un’impresa intellettuale che convoca il teatro e la letteratura, la radio e tanto cinema.
Anche i suoi difetti, i postumi di una gestazione tormentata, diventano i segni della sua grandezza. Killers of the Flower Moon, adattamento del best seller di David Grann (“Gli assassini della terra rossa”), non è magari il miglior film di Martin Scorsese ma per la sua ampiezza e il suo coraggio si colloca senza dubbio tra i più grandi. E questo status ingombrante significa che dovrà aspettare qualche anno prima di trovare il posto che gli spetta nella storia, quella del regista e quella del cinema.
Perché Scorsese lo fa di nuovo, reinventa la ‘nascita di una nazione’ a partire dal prologo, scandito da intertitoli, schegge di parole conficcate tra le immagini mute, che introducono un nuovo capitolo dopo quello di L’età dell’innocenza, Gangs of New York o The Irishman. Se il cinema americano ha rinunciato da tempo alla sua aspirazione storica, Scorsese la rinnova gettando un nuovo sguardo retrospettivo sull’origine degli Stati Uniti e conferendo al suo film un aspetto magnificamente anacronistico, accentuato ulteriormente dalle riprese in studio (più set e comparse che effetti digitali).
È sufficiente il sottotitolo dell’edizione americana, “Oil, Money, Murder and the Birth of the FBI” per comprendere la fascinazione del regista per il romanzo di David Grann, che mette in scena la crudeltà inaudita di un episodio (dimenticato) della storia americana moderna. L’intrigo segue l’inchiesta dell’FBI nella riserva indiana degli Osage, che l’avanzata dei pionieri aveva cacciato dalle loro terre e costretto in un angolo arido dell’Oklahoma.
E nel bel mezzo del nulla, il petrolio si mette a sgorgare, facendo di quell’aerea desolata il più grande giacimento di petrolio degli Stati Uniti. Gli indiani diventano improvvisamente ricchi e cominciano a vivere come dei. Ma quella storia, troppo bella per durare, mostra presto il suo volto tragico. A partire dagli anni Venti, gli Osage muoiono per mano di un manipolo di criminali bianchi che minano per sempre il sogno di un’utopica comunità interetnica. Robert De Niro e Leonardo DiCaprio, per la prima volta uniti ‘in Scorsese’, sono a capo di una piccola mafia sanguinaria, genocida e discreta che fa sparire impunemente uomini e donne, oggetti di ripetuti omicidi irrisolti.
Il regno del terrore di Killers of the Flower Moon
Come aveva fatto con l’aristocrazia (L’età dell’innocenza), l’autore filma i ricchi proprietari terrieri come una mafia. Sotto il costume, e le maniere affettate dell’allevatore gentiluomo di De Niro, c’è un vero Scorsese. E la violenza verbale e sommessa, a forza di sottintesi e repliche dissimulate, volge presto in violenza fisica e ostentata.
Il circolo è chiuso e i bianchi locali prosperano in un mondo che si fa le proprie leggi ed è al di sopra della legge. Scorsese sfida il pubblico a riconoscerli, a riconoscere i cattivi della storia. Del resto il film pone al principio una domanda che è al cuore dell’inchiesta: “Riuscite a trovare i lupi in questa immagine? Ci riusciranno senz’altro gli uomini di J. Edgar Hoover, che prende il controllo dell’inchiesta sulla quale fonderà un sistema rivoluzionario ma progressivamente insensibile alle minoranze. Perché è di un’altra nascita ancora che ci racconta Scorsese, quella della giustizia moderna negli Stati Uniti.
Una giustizia assolutamente embrionale e nulla al debutto del film e di un racconto che trasuda il disordine ammuffito dell’epoca e l’incapacità di trovare i colpevoli. Scorsese pesca nella magistrale indagine di Grann, condotta un secolo dopo e pubblicata nel 2017, e prende la piena misura del crimine, meglio, di una cospirazione contro una famiglia Osage, quella di Mollie Burkhart, le cui sorelle e la cui madre furono assassinate brutalmente una dopo l’altra. Iscrivendo quel “regno del terrore” nel quadro di un genocidio perpetrato contro gli indiani dalla nazione americana nascente, Scorsese ricostruisce un capitolo che gli americani hanno dimenticato e il resto del mondo ignora.
Il cinema americano ha sempre sostenuto che l’invenzione degli Stati Uniti fosse una questione di grandi spazi aperti, di lotta tra natura selvaggia e ordine umano, eppure la filmografia di Scorsese ci ricorda che le strade di Five Points come i salotti di Newland Archer, i dock di Filadelfia come i pozzi dell’Oklahoma sono altrettanti luoghi di nascita di questa nazione. Un Paese dove prospera William Hale (Robert De Niro), genio del male e inventore di una macchina criminale che ha plasmato l’intera città.
La messa in scena di questa macchina, pensata per produrre denaro e garantire la sicurezza dei ricchi, è tanto più spaventosa perché Scorsese non abbandona la sua morbosa fascinazione per la sofferenza che gli uomini si infliggono, una fascinazione che ha portato come una croce fin dal suo primo film. È soltanto meno barocco, meno incandescente, più politico, più mitologico.
Adesso trovate il lupo
L’opera non spreca niente delle sue tre ore e mezza sviluppando un intrigo complesso che articola riflessioni sociologiche e storiche. Si prende tutto il tempo necessario per piantare la tenda sul campo e mostrare un clan di amerindi che provò a restare fedele alle proprie tradizioni nonostante la ricchezza improvvisa e i domestici bianchi a covare in cucina un risentimento furioso.
E da quella comunità sorge come un’alba Lily Gladstone (Certain Women), incarnazione insondabile e struggente di un popolo di cui Scorsese racconta con precisione secca e clinica la sparizione programmata. L’assediano un De Niro ingannevolmente bonario e davvero spaventoso, re per una lunga notte e ‘padrino’ per sempre, e un DiCaprio che assume col prognatismo l’infame e il povero diavolo, con una punta di sensibilità il primo e con una punta di coraggio il secondo.
Il respiro western si tinge progressivamente di nero ma il regista non cede alle abitudini consolidate del genere, infondendo il film di un movimento ipnotico, che perderà probabilmente lo spettatore meno perseverante. La pellicola agisce come un veleno a lento rilascio, intorpidisce e poi colpisce sordo, filmando con l’estinzione degli Osage, l’estinzione di una forma di cinema.
Scorsese si prende il rischio di girare un western anarchico, barbaro, spogliato di ogni romanticismo e lontano da quello che il grande pubblico può sopportare. Un affresco criminale epico, violento ma soprattutto estenuante, amaro e funebre sull’avidità umana, esplorando nuovi territori e rinfocolando una fiamma sul punto di spegnersi. E adesso trovate il lupo.
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