“Vengo da quel mondo, il metalmeccanico, con orgoglio, l’ho fatto per sei anni”. Cento domeniche di Antonio Albanese nasce da qui, da Olginate, in provincia di Lecco, dalla capacità di un autore, attore, regista, genio (chi ha immaginato e portato in scena Frengo, Cetto Laqualunque e il Ministro della Paura non puoi definirlo altrimenti, per non parlare dei personaggi interpretati per Mazzacurati e Milani, ma non solo). E non a caso il protagonista si chiama Antonio, “perché quell’uomo sarei potuto essere io”. È questo che rende quest’opera la migliore regia di un artista che qualsiasi tonalità, colore, registro abbia scelto ha sempre riempito le sue storie, i suoi personaggi di umanità, realtà e racconto sociale. Sempre con un’onestà intellettuale disarmante, sempre guardando non gli stereotipi, ma la crudezza della verità. Che ci volesse far ridere, piangere o indignare. Lo ha fatto spesso e non di rado contemporaneamente.
Cento Domeniche, la trama
Antonio Riva (Antonio Albanese) ha iniziato a lavorare a 15 anni. Dopo 43 è andato in pensione, ma ogni tanto lo puoi vedere al suo vecchio tornio per dare una mano al signor Carlo, il padrone della fabbrica in cui ha lavorato una vita, il figlio di chi l’ha assunto. Lavora in nero, perché in fondo sono due brav’uomini che cercano di venirsi incontro. Il suo piccolo mondo antico è fatto di amici fedeli con cui vince i campionati provinciali di bocce, di un’amante siùra che frequenta da quando si è separato dalla moglie (la sempre ottima Sandra Ceccarelli), della cura affettuosa della madre svanita (Giulia Lazzarini, perfetta come sempre “e pensate che ha 90 anni, si è rotta il femore quest’estate e una settimana fa l’ho vista nel Teatro dell’Elfo pieno a fare un monologo”). Una routine sorridente, in una comunità come tante. Il coronamento di questa vita che altri definirebbero agra ma che per lui è piena e persino dolce è l’annuncio del matrimonio della figlia. Lo ha immaginato e messo in scena con lei per anni, sogna il meglio per lei e secondo tradizione vuole pagarlo. Sogna di portarla all’altare nel giorno più felice della sua vita e non sente ragioni, a cosa serviranno in fondo i risparmi di una vita se non a regalare alla propria figlia e a se stessi la felicità? A dare una forma al proprio orgoglio di padre, di uomo, di lavoratore?
Ma Antonio, che nella sua comunità è amato e rispettato, si è fidato di una banca. Non legge i giornali, si è spezzato la schiena per troppi decenni per farlo e si fida della parola e dell’integrità di chi serve la comunità come lui. E quando scopre che quel sogno potrebbe non realizzarsi, precipita lentamente in un abisso di rabbia, dolore, frustrazione.
La recensione del film di Antonio Albanese
Una storia semplice, lineare. Antonio Riva è un uomo gentile, il suo cuore è grande e in fondo è felice, nonostante tutto. Ama, ricambiato, figlia, madre, persino l’ex moglie e l’amante. Non ha grilli per la testa e il suo mondo è quella piccola comunità di provincia in cui è un campioncino di bocce, insieme agli amici più stretti e con su la maglia sponsorizzata dalla sua fabbrica. I suoi sogni sono sempre stati piccoli come quel mondo, non vuole neanche cimentarsi nei campionati regionali dello sport che ama perché in fondo “poi diventiamo più competitivi e non ci si diverte più”. Antonio Riva è quel sorriso pulito che non nasconde nulla, che la banca la chiama “il confessionale, perché voi sapete tutto di noi, ma noi sappiamo tutto di voi”, è l’ostinazione con cui vuole seguire tradizioni antiche, è la dolcezza di chi è sempre a disposizione, anche solo per sistemare un tavolo traballante. E attorno a sé ha una comunità che ricambia, senza fronzoli. Solidale, per abitudine e costituzione, senza neanche dirselo.
Cento Domeniche
Cast: Antonio Albanese, Liliana Bottone, Giulia Lazzarini, Bebo Storti, Martin Chisimba, Maurizio Donadoni, Sandra Ceccarelli, Sandra Toffolatti, Elio De Capitani, Stefano Braschi, Alessandro Piavani
Regista: Antonio Albanese
Sceneggiatori: Antonio Albanese, Piero Guerrera
Durata: 94 minuti
Ecco perché è rivoluzionario il film di Antonio Albanese, perché non predica il nichilismo di un mondo liberista e infame, in cui ci si isola e si calpesta l’un l’altro, ma torna pasolinianamente al presente che coltiva ancora un passato comunitario, solidale, una rete sociale e affettiva. Un mondo di valori reali, morali e materiali. L’onestà e il tornio, l’altruismo e le bocce, la famiglia e la fabbrica. Ma la modernità è investire in azioni, contratti con clausole scritte piccole, bolle finanziarie e finanziamenti truffa e bancarotte fraudolente. È pescare nell’ingenuità di un paese che ha fondato tutto su strette di mano e fiducia per far soldi.
È un infamia che tradisce due volte.
Tradisce la legge, ma costringe alcuni di loro, grazie alla banalità del male del liberismo, ad obbedire agli ordini dei grandi capi, a subire il ricatto della perdita del posto di lavoro, a investire forzatamente in ciò che non esiste. A diventare i kapò dei propri vicini di casa, dei clienti, anche i più affezionati. Una crudeltà più feroce della perdita dei risparmi di una vita che sì, sono un lutto, perché ti strappano via la tua identità. Quel denaro sono 43 anni in fabbrica, un matrimonio desiderato, la testimonianza della tua integrità, il desiderio di un padre, per quanto piccolo possa essere. È una marcia nuziale cantata da un padre e una bimba che ora possono tornare tali, per un giorno.
Cos’è Cento domeniche
Cento domeniche è lo sguardo nell’abisso, pedina il dolore sordo di un uomo che si sente improvvisamente perso, inadeguato e tradito. Che perde il sorriso, la serenità e infine il sonno. È la grandezza di Antonio Albanese che destruttura la sua maschera dopo averla blandita nei primi minuti, che la scompone, la rompe in mille pezzi e lo fa rimanendo in scena quasi in ogni inquadratura e mostrandoci ognuna di quelle crepe, con la maestria di Sellers in Oltre il giardino.
Registicamente è l’uso del filtro di un vetro e di una luce che ci passa attraverso, l’esile corpo di una madre dietro una porta a vetri, il controluce dell’uscita dalla casa dall’amante, è l’ultima scena a camera fissa, di nuca che dà il senso profondo dell’ingiusta vergogna che un uomo è costretto a provare perché nessuno gli rende giustizia, è l’eleganza della misura, è un ritmo che non è sedotto dalle cadenze di serialità o del cinema mainstream, ma da alcuni momenti teatrali e altri cinematograficamente veristi. È un attore che sa interpretare l’insonnia, la paura, il lutto per un giovane e per sé, con un tremolio che è implosione e che entra sotto pelle anche allo spettatore.
L’asciuttezza e l’antiretorica della narrazione sta negli amici che gli rimangono vicino, che vogliono aiutarlo nel sogno, ma lui è già troppo ossessionato dall’incubo; è una figlia che non è più raggiante perché quell’uomo, dopo 27 anni di amore, le sta sfuggendo di mano (e quant’è brava Liliana Bottone a disegnarsi addosso, con pochi sguardi e gesti, il lutto in vita, l’impotenza affettiva).
L’abisso è smettere di vivere – “alcune delle vittime, per la vergogna non sono usciti di casa per mesi” e altri non ce l’hanno proprio fatta a sopravviverle -. di rispondere al telefono a chi ami o semplicemente a chi ti rendeva felice, è scoprire che il “nostro piangere fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam” e che per quei borghesi, che siano il padroncino o la ricca fedifraga, non sei nulla. Anche se tu sei stato sempre disponibile, in tutti i sensi.
Si prendono ciò che è tuo, dopo averlo fatto per una vita intera.
Ma è anche un piccolo mondo antico che non si sfalda, che cerca una risposta unitaria, legalmente e psicologicamente. Non tradisce e non modifica la propria identità. Ma ad Antonio non basta, come a Peppo. L’ira dei giusti non otterrà mai giustizia sociale, la classe operaia non vuole andare in paradiso, non l’ha mai voluto, si è sempre accontentata anche solo delle briciole di felicità. Ma il mostro capitalista si ciba di quelle briciole per ribadire il proprio potere, anzi la propria tirannia.
Il cinema civile alla Festa del Cinema di Roma
Si parla profondamente con quel capolavoro che è Palazzina Laf di Michele Riondino, Cento domeniche. Da Olginate a Taranto, la strada è brevissima, pur nelle differenze estetiche, di stile, di linguaggio cinematografico. Raccontano un sistema che non ha voluto stravincere, ma umiliare la forza lavoro. Che ha voluto togliergli tutto, a partire dal proprio orgoglio. Perché Antonio è un uomo fiero. Che hanno voluto spezzare. “Potevo essere io” ha detto Albanese. Poteva, può essere ognuno di noi.
Sì, Antonio Albanese è un genio. Un genio coraggioso. Che ha raccontato chi non viene più rappresentato, una storia che si è ripetuta negli ultimi decenni centinaia di volte. Ma che al cinema non ha mai trovato spazio, come ormai non lo trova più il lavoro. Se non in alcune eccezioni chiamate Albanese, Riondino, Vicari.
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