I pugni chiusi, Clenched Fists, sono quelli di Lucien (Yanis Frish), un bambino di undici anni, solitario, silenzioso, misterioso. Parla poco e fatica a fare amicizia nel paesino delle Ardenne in cui vive con la madre Cécile e il fratello maggiore Matt.
A scuola c’è una sola bambina, Lies, a cui si sente legato, ma nemmeno con lei può essere del tutto sincero. Mente, a partire dal suo cognome, seguendo le regole imposte dalla madre, per proteggersi dall’orrore che minaccia la sua famiglia, il suo nome e la sua vita. Questo, però, il pubblico lo scopre per gradi, man mano che Lucien inizia a scavare nei segreti della famiglia, per provare a colmare l’assenza del padre, detenuto in carcere per orrendi crimini di violenza e pedofilia. Mai rivelati però in modo diretto, perché, come voluto dal regista Vivian Goffette, tutta la storia è raccontata soltanto dal punto di vista, incompleto, di Lucien.
Clenched Fists – con il supporto di ricerche e colloqui con chi una storia del genere l’ha vissuta realmente – coglie con precisione uno stato d’animo difficile da restituire al pubblico se non per immagini. Goffette ne ha parlato con The Hollywood Reporter Roma in occasione della presentazione del film in concorso ad Alice nella Città.
La prima cosa colpisce in Clenched Fists sono gli occhi, espressivi, tristi e azzurri di Lucien. Come ha trovato Yanis Frish, il suo giovane protagonista, e come ha lavorato con lui?
Ho fatto due casting. Il primo si è interrotto dopo un anno e mezzo per il Covid e durante il secondo ho scelto di cambiare tutti gli altri bambini, tranne Lucien. Perché Lucien, cioè Yanis, era rimasto piuttosto piccolo di corporatura anche dopo tutto quel tempo e, al contrario, era cresciuto mentalmente. Era diventato un adolescente che non esprimeva più i suoi sentimenti allo stesso modo. Era cambiato il modo in cui vedeva le cose ed era più difficile per lui lasciarsi andare. Però abbiamo deciso di sfruttare questa cosa a nostro vantaggio. Così come nel film tutto passa solo attraverso gli occhi di Lucien, tutto è dal suo punto di vista chiuso e introverso, così sarebbe stato il film.
E infatti la macchina da presa resta sempre su Lucien e svela la storia man mano che lui ne scopre un pezzo in più. È quindi un aspetto del film che si è sviluppato sul set più che in fase di scrittura?
Era già in sceneggiatura, ma diventa sempre più marcato, come se tutto il film fosse un interrogatorio costante su Lucien e la macchina da presa cercasse continuamente di sapere di più, di scavare nella sua identità e scoprire le cose che Lucien nasconde. Volevo che tutto il film fosse così radicale, che non mostrasse mai il mondo esterno intorno al personaggio, ma mi sono poi reso conto che non era possibile e ho optato per un montaggio più classico. Sono però riuscito a farlo nella scena finale, di cui vado molto fiero. È una ripresa continua che non si sposta mai dal volto di Lucien e non supera mai la sua altezza, resta su di lui. È questa l’idea di partenza, non volevo muovermi da lì, era un’ossessione. La mia macchina da presa doveva essere lo sguardo di Lucien, seguirne la direzione.
Proprio in quella scena finale, i pugni chiusi che danno il titolo al film rappresentano per lei più la rabbia di un bambino ignorato o una ribellione verso il padre?
È difficile perché non voglio rivelare troppo di questa scena, però penso sia prima di tutto una forma di immensa tristezza. Il bambino si rende conto che tutto quello che ha sacrificato per suo padre non è servito a niente. Che al padre stesso non importa niente di lui. Quindi sì prima di tutto è tristezza, poi è rabbia, collera, perché la tristezza si esprime in tanti modi. O meglio, sono diverse fasi di un lutto. Lucien in questa scena comprende che deve riconoscere il proprio lutto, per una persona che comunque è viva, ma a cui sta dicendo addio.
Non si vede mai l’orrore compiuto dal padre di Lucien, tranne in una breve scena che però fa parte di un suo incubo. Perché ha scelto di lasciarla?
Poche persone notano che la bambina in quella scena è l’amica di Lucien. Il motivo è che Lucien non sa tutto. La madre cerca di proteggerlo nascondendogli alcuni dettagli, nascondendogli le lettere del padre, tagliando ogni contatto con la vita precedente. Dunque Lucien proietta i pochi elementi che ha, cercando di ricostruire la storia per intero. E l’incubo che fa sulla sua piccola amica è proprio questo, ma non svelerò di più. È semplicemente il mondo così come lo vede lui. Tutto il film è una visione introspettiva, avrei potuto raccontare lo stesso fatto molto prima, nel momento dello shock, ma ho deciso invece di raccontare come si vive anni dopo lo shock.
Ha fatto ricerche, per raccontare appunto cosa viene dopo?
Sì, assolutamente ed è anche la ragione per cui ho impiegato molto tempo a scrivere questo film. Avevo scritto inizialmente una storia semplice, il filo conduttore. Poi, per trovare un equilibrio per ogni parola, per ogni espressione usata ho impiegato circa due anni. Nel frattempo ho incontrato dei bambini che avevano vissuto esperienze come quelle di Lucien, ho incontrato dei detenuti e degli psicologi del carcere. Ho fatto un grande e lungo lavoro di documentazione e ho avuto la fortuna di incontrare un ragazzo che mi ha permesso di leggere il suo diario personale, in cui raccontava una storia molto simile a quella di Clenched Fists. Mi ha permesso di capire come un bambino di quell’età può aver vissuto una tale situazione e provare a guarire dai suoi traumi e dalle sue ferite. È stata un’esperienza molto forte per me scrivere questa sceneggiatura a partire da elementi molto concreti, molto veri.
Che valore ha, allora, per lei presentare questa storia ad Alice nella Città, di fronte a un pubblico così giovane?
È qualcosa che mi rende orgoglioso e felice perché penso che non sia un film solo per un pubblico adulto. Il fatto di avere scelto il punto di vista di Lucien attraverso cui raccontare la storia spero permetta di indirizzarne il messaggio in modo più diretto al pubblico più giovane. Il soggetto può essere interessante per gli spettatori adulti, ma mi piace pensare che viva attraverso la prospettiva dei ragazzi.
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