“Oggi noi e i nostri nemici, ci siamo salvati”.
Lo scrive Salvatore Todaro all’amatissima moglie Rina, ma lo scrive soprattutto a se stesso, capitano di corvetta giovane e atipico, eroe sconosciuto ma leader di un manipolo di sommergibilisti che guida con illuminata incoscienza in una guerra che lui interpreta come un atto di affermazione della volontà umana, più che di sopraffazione. Un uomo di mare e di intelletto, uno stoico, nel senso più filosofico del termine, un patriota romantico. Un essere umano che pur vantandosi dei 2000 anni di civiltà che porta sulle sue spalle e che, ha detto in una frase mai smentita, ha sostenuto essere la causa dei suoi comportamenti, è fuori dal tempo: soprattutto il suo, fascistissimo. Ma sott’acqua e in emersione, in mezzo all’Oceano Atlantico o passando lo stretto di Gibilterra tutto sembra lontano. E lo è.
Comandante, va detto subito e inequivocabilmente, è una grande storia. Tratta dal romanzo omonimo, scritto dal due volte premio Strega Sandro Veronesi e da Edoardo De Angelis, sceneggiatori insieme del film e quest’ultimo anche regista. Viene in mente un commento del cineasta ai sei David vinti per il suo bellissimo Indivisibili, quando disse “premiati, ma restiamo anarchici e indipendenti” per capire la genuina fascinazione provata per quest’eroe misconosciuto. Anarchico e indipendente, appunto, un capitano di corvetta che, nel film come nella Storia, prende una decisione che l’alto comando di Dönitz sa che non approverà, fino a definirlo “Don Chisciotte del mare” (sì, gli slogan dei razzisti hanno sempre poca fantasia, ma questo rimane comunque meglio di “taxi del mare”).
Comandante, le possibili polemiche
Inutile girarci attorno, non saranno in pochi a provare a lanciare qualche siluro – usando una metafora (sotto)marina – sul fascismo di Todaro, sui tempi in cui lui ha vestito l’uniforme della Regia Marina, su quella frase, riportata da documentazioni plurime, che alla domanda del suo pari grado belga che ha appena salvato da morte sicura insieme agli uomini al suo comando sul perché lo ha fatto, gli fa affermare “perché siamo italiani”.
Comandante
Cast: Pierfrancesco Favino, Silvia D'Amico, Massimiliano Rossi, Lucas Tavernier, Mario Russo, Pietro Angelini, Giuseppe Brunetti, Giustiniano Alpi, Johannes Wirix, Giuseppe Lo Piccolo, Paolo Bonacelli, Johan Heldenbergh
Regista: Edoardo De Angelis
Sceneggiatori: Edoardo De Angelis, Sandro Veronesi
Durata: 155 minuti
Ma questo probabilmente dice tanto, troppo di noi come spettatori e cittadini e poco del film. Dice che ancora adesso, per colpe molto più gravi – un’incapacità di metabolizzare quel ventennio e quelle alleanze, la banalità del male che ne erano alla base e invece risolte frettolosamente in Piazzale Loreto ma mai affrontate con la maturità di un grande paese occidentale – non riusciamo ad avere un rapporto equilibrato con quegli anni. Dice che preferiamo seppellire sotto tonnellate di ferro ed acqua la grande impresa umana, prima che militare, di un gruppo di uomini, per l’ostinazione a non essere capaci di contestualizzarla. Il fastidio che qualcuno proverà di fronte a questa storia dipenderà decisamente più dalla malizia di chi guarda che di chi racconta, insomma. E da qualche semplicismo di troppo in scrittura (che sia successo o no, incarnare gli antifascisti belgi in due fessi insopportabili è sin troppo facile come scorciatoia, così come infilare in qualche battuta la nostra presunta diversità rispetto ai nazisti).
Edoardo De Angelis, invece (e Sandro Veronesi), ancora più che nel libro, trova un angolo di narrazione che è potente, onesto e chiarissimo. Conduce la nave, anzi il sottomarino in porto, come sa fare lui, espressione di una cinematografia, di un’estetica e di un’etica che non ha eguali in Italia per la capacità di toccare le corde dell’epica e del melodramma, tenendole su tonalità alte senza perdere in raffinatezza.
Il “saluto” di Stumpo, struggente, o il momento di intimità tra comandante e secondo, sono scene che in mano ad altri virerebbero sull’umorismo involontario e che lui tiene su un tono romantico, aulico, perché in fondo se una cosa ci ha insegnato quest’autore è quello di non aver paura dei nostri sentimenti, dei nostri eccessi, di ciò che ci fa piangere. Magari ridendo, tra una patatina fritta e una canzone napoletana.
Comandante, la recensione
Lo capisci nella prima parte, sospesa in questo muro d’acqua e tra queste tonnellate di tecnologia avveniristica per il tempo, negli eroismi dei sottoposti di Todaro, raccontati con poesia lacerante, nell’avere il coraggio di fare un film umanissimo e al contempo militare, perché ci sono divise, morti, sangue, rabbia. Quella prima parte è De Angelis in purezza e dà l’impronta al film. C’è anche in Pierfrancesco Favino – che a Venezia80 ricorderemo per un lavoro titanico su dialetto, voce, fisico, in personaggi, qui e in Adagio di Sollima, che portano su di sé un dolore fisico e morale incurabile e il fardello disumano di Atlante – grazie alla capacità di incarnare la follia lucida di un Achab inquieto, che la sua balena la abita e la ama. E guardandolo in questo film ti chiedi come questo regista e quest’attore non lavorino sempre insieme.
C’entra nulla con la politica, Comandante. Non perché non voglia affrontarla, ma perché nel primo e unico discorso a terra ai suoi uomini, Todaro rivendica orgogliosamente l’unicità, bellica e umana, dei sommergibilisti. E lo farà, De Angelis, raccontandoci quel microcosmo isolato, quegli uomini disegnati a pennellate grosse ma decise e precise, da Gigino cuoco e cantante (Giuseppe Brunetti, così bravo da dargli i titoli di coda, solo in voce) al suo secondo, realista e potente nella sua ostinata razionalità (Massimiliano Rossi, ha tanto talento quanto è sottovalutato) fino ad arrivare alla dolcezza di Johannes Wirix, che per motivi diversi è alieno a questa guerra che combatte, pur avendola scelta, come lo stesso Todaro.
Tore, come lo chiama il suo secondo, è un fanatico. Del mare, di quella “macchina ottima”, del sodalizio umano e maschile che lo fa sentire unico, vivo, grande come i suoi riferimenti culturali, sentimentali. Ha un’idea quasi parossistica di tutto, dell’italianità in primis, del suo ruolo poi, ma la storia e i racconti di finzione ci raccontano che il confine tra un eroe, un pazzo, un uomo ridicolo è decisamente più labile di quanto crediamo. Stiamo qui a celebrarlo, ad esempio, perché ha affondato il mercantile armato belga Kabalo e poi ne han salvato gli uomini, prima rimorchiandone la scialuppa e poi ospitandoli nel suo sommergibile Comandante Cappellini per due giorni e due notti, dal largo di Madera fino a Santa Maria delle Azzorre (circa 300 miglia).
Non ci sarebbero medaglie, film, libri o celebrazioni se dopo non si fosse scoperto che quel mercantile armato batteva sì bandiera neutrale, ma trasportava materiale militare britannico. Solo per citare uno dei tanti se che storie e Storia portano sempre con sé. E questa, in particolare.
Carismatico e decadente
Todaro, soprattutto nell’interpretazione di Favino e De Angelis, è carismatico e decadente, persino in quel fisico minato da un dolore costante e che lo costringe a un busto che a volte sembra il costume di un supereroe, ben più della divisa. Lo porta a causa di un incidente che lo ha travolto in uno dei rari casi in cui nella sua vita è stato osservatore, su un aereo. Deve prendere della morfina, vive un’esistenza che ha qualcosa di eroico e assurdo (e qui più di Atlante c’è anche Sisifo, citato), come spesso è la guerra e chi la incarna. Quel busto gli concede anche il suo unico giudizio esplicito sul fascismo (o meglio, su uno dei rappresentanti). Un personaggio dannatamente (nel senso anglosassone di fucking) cinematografico, perfetto per il cinema a tinte forti di De Angelis, per un attore che sa contemporaneamente pigiare forte per poi sfiorare i tasti bianchi e neri del pianoforte del suo talento come Favino, per gli affreschi delle comunità allargate e potenti di Veronesi, perché non va dimenticato che Comandante porta il nome dell’eroe, ma racconta tutti i suoi uomini ed è probabilmente ciò che affascina di più del racconto.
Questa è un’opera che merita una visione serena, priva di pregiudizi. E allora il consiglio è: guardatela pensando a come l’avreste giudicato se fosse stato fatto dieci anni fa. O meglio, tre. Ecco, proviamo a fare un gioco di strumentalizzazione politica. Matteo Salvini ministro dell’interno. Immigrati respinti. Comandanti che vanno contro ogni loro convenienza, per quelle stesse leggi del mare, per salvare persone, altri che invece obbediscono perché il coraggio non te lo dai. Arriva un film che parla di un uomo per cui non esistono leggi, che siano fasciste o meno, scritte dall’uomo. Come dice Todaro prima di imbarcarsi con i suoi uomini “qui con voi non c’è il Re, non c’è il Duce. Ci sono io”. Arriva un’opera che celebra un comandante che ha l’eroismo normale (e non “barbarico”, lui affonda “senza remore e senza paura il ferro nemico, ma l’uomo no, l’uomo lo salviamo”) di chi fa rispettare le leggi del mare, contro tutto e tutti.
Nessuno si sognerebbe di sospettarlo di parte, fazioso o addirittura fascista, Comandante. E allora non facciamolo. Giudichiamolo per quello che è. Un film.
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