In un mondo distopico, dove le donne non esistono più, uccise dai loro compagni, tre uomini richiusi in una cella rivivono gli ultimi attimi di vita delle loro vittime, come in un Corpo unico. Ne ripetono i pensieri, ne percepiscono le emozioni. “È un’espiazione, un cortocircuito in cui la vera condanna è capire a fondo il gesto compiuto”, spiega a The Hollywood Reporter la regista Mia Benedetta.
Il suo Corpo unico, cortometraggio fuori concorso nel Panorama Italia di Alice nella Città, è un racconto sul femminicidio come “problema culturale, non raptus né natura selvatica, se così vogliamo chiamarla. Non vuole risolvere nulla, piuttosto far riflettere su come l’arte, cinema compreso, serva a costruire un immaginario e a cambiarlo”. Cambiare la rappresentazione della violenza sulle donne, in questo caso.
“È una specie di legge del contrappasso il voler far parlare gli uomini al femminile, come se fossero le vittime, perché è un modo di mettersi pienamente nei panni dell’altro”.
Ciò che la regista offre ai suoi personaggi maschili, dunque, è una redenzione che passa attraverso un’esperienza di incarnazione, un’esperienza di corpi di uomini e corpi di donne che si realizza però da una prospettiva esclusivamente femminile: “Io vengo anche dal teatro e ho trovato subito interessante vedere cosa succede nel corpo di un uomo quando parla al femminile, quando parla da vittima e non da carnefice, quando si mette dall’altra parte. È il lavoro stesso dell’attore, in realtà, mettersi dall’altra parte”.
Dagli abissi marini: una violenza profonda e quotidiana
Una sincera rappresentazione del femminicidio non è possibile se non dal punto di vista femminile. È questa la più forte dichiarazione sottintesa in Corpo unico. Per questo anche l’effetto inizialmente straniante di un uomo che parla al posto di una donna “diventa presto logico anziché controintuitivo”.
C’è una banalità nel male, tuttavia, che spesso è difficile da spiegare, se non attraverso chiavi di lettura più creative. “Paradossalmente si ha bisogno della complessità per esprimerlo” ed è da qui infatti che ha origine il collegamento con il Corpo unico dei pesci abissali, di un rimando a una natura violenta e brutale. Quella degli anglerfish (presenti sia nei dialoghi che nel poster ufficiale del cortometraggio) che, accoppiandosi formano per sempre un unico organismo, un unico flusso di sangue, nato da un atto violento.
Il parallelismo con gli abissi è “un altrove, per non stare chiusa in una stanza” prosegue Mia Benedetta, in una storia che già in sé diventa sempre più claustrofobica. E deriva anche da una passione personale della regista per tutto ciò che riguarda il mondo marino. “È modo anche per non cadere nel sentimentalismo” e per mostrare un tema apparentemente saturo in una luce diversa.
Il cinema come atto politico
Tra le opere che risuonano in Corpo unico Mia Benedetta riconosce soprattutto Le serve di Jean Genet, The Lobster di Yorgos Lanthimos e Fahrenheit 451 di François Truffaut. Ma c’è anche un fondamentale slogan femminista evocato dai dialoghi del cortometraggio stesso, Io sono mia. La motivazione femminista c’è ma è più un riferimento a quel “copione unico dell’ultimo appuntamento, di quel ‘o mia o di nessuno’ che spesso a molte risulta fatale”. È un modo “per sensibilizzare, non solo intrattenere, perché fare film, fare arte è comunque un atto politico”.
Mia Benedetta sceglie di farlo senza mettere in atto alcuna vendetta. Per questo, per esempio, rivela a The Hollywood Reporter Roma di aver tagliato una scena finale nel momento in cui si è resa conto di “non voler rispondere con violenza alla violenza”, perché non era questo il messaggio di Corpo Unico. C’era infatti un altro corpo, quello dell’unica donna ancora viva, che alla fine riesce a uccidere il suo carnefice. “Ma in sala montaggio con Aline Hervè e Shervin Zinouzi abbiamo deciso che non era funzionale a ciò che volevamo raccontare”.
Tutta un’altra storia, che invece resta necessario condividere come atto politico è quella di Tante facce nella memoria, il film di passaggio alla Festa del Cinema (sabato 28 all’Auditorium Parco della musica) tratto dall’omonimo spettacolo di Francesca Comencini con Mia Benedetta, Lunetta Savino, Bianca Nappi, Carlotta Natoli, Simonetta Solderà, Chiara Tomarelli.
“È uno di quegli spettacoli che cambia con forza sia chi lo fa sia chi vi assiste. Un passaggio di testimone al pubblico, affiché la memoria rimanga viva. È il lavoro di un attore anche questo, entrare di nascosto nella vita del pubblico, da dentro i teatri”. E dai fotogrammi di un film.
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