Paolo Sorrentino ha aperto la sua casa di produzione, la Numero 10. Mentre sta girando – e producendo – il suo prossimo film, ancora senza titolo, come primo progetto per la sua nuova società ha scelto di investire nel cortometraggio De l’amour perdu. L’opera è scritta e diretta da Lorenzo Quagliozzi e presentata all’80esima Mostra del Cinema di Venezia nella sezione della Settimana della Critica. A unire Sorrentino e Quagliozzi è la fascinazione per il mondo delle suore e della religione: le protagoniste sono due “sorelle”, le interpreti Catherine Bertoni de Laet e Francesca Osso, nella Francia occupata dai nazisti. De L’amour perdu è una storia di preghiera e di rinunce: quelle di una giovane monaca divisa tra Dio e l’amore.
De L’amour perdu è il primo progetto prodotto da Numero 10, la casa di produzione di Paolo Sorrentino. Come vi siete conosciuti?
Seguo Paolo da quando ero un liceale. È stato il primo a darmi la possibilità di capire come funzioni un set, con The Young Pope. Ancora oggi fatico a realizzare cosa sia successo e quanto mi ha abbia insegnato in questi anni.
Come ha fatto a convincerlo a produrre il suo cortometraggio?
È accaduto molto naturalmente. Scrissi a Paolo parlandogli del progetto e, con mia sorpresa, si mostrò subito interessato. Non pensavo avrebbe trovato il tempo di stargli dietro, con tutti gli impegni che ha.
La storia di De L’amour perdu, sullo sfondo dei disastri della Seconda Guerra Mondiale, ha come protagonista una suora. Affinità elettive?
È vero, abbiamo entrambi una forte curiosità per il mondo religioso. Da bambino ho frequentato molto la chiesa. Mi trovo spesso a confrontarmi con la mia formazione religiosa, che da piccolo mi attirava e mi spaventava. Mi faccio ancora molte domande sulla fede.
Le risposte le trova nei suoi lavori?
Non lo so. Di certo mi piace pensare che il cinema possa aiutarmi a rimettere le cose in ordine.
Oltre a Sorrentino, il corto è prodotto anche dalla Kavac Film fondata da Marco Bellocchio.
Devo ringraziare Simone Gattoni per la forte spinta che mi ha dato per portare a termine il cortometraggio. È stato sempre Paolo a metterci in contatto.
Quale cinema sente più affine al suo?
Sono abituato a nutrirmi di qualsiasi forma di cinema. Ultimamente sento di essere saturo di un certo cinema isterico. Il fatto che oggi si possa girare qualsiasi cosa e all’infinito mi dà l’impressione che ci stiamo distraendo, perdendo di vista l’essenziale. Michael Bay usa trentamila tagli al secondo, ma il suo è un cinema di movimenti e di macchine, ha un senso. In altri casi, la frenesia diventa un ostacolo al ritmo, all’atmosfera. Anche il cinema più autoriale, se così vogliamo chiamarlo, spesso viene infarcito di suggestioni e dialoghi, che finiscono per confondere lo spettatore.
Perché ha ambientato De l’amour perdu in Francia?
Inizialmente la storia era ambientata in Italia, ma avrei avuto troppi problemi con alcune incongruenze storiche. E poi volevo lavorare con Catherine Bertoni de Laet, un’attrice belga. Non parlo francese e nemmeno la coprotagonista, Francesca Osso. Ma le due attrici sono state bravissime lo stesso, facendo leva sull’intensità dei loro volti.
Nel film ci sono anche inserti di repertorio: come mai?
Mi appassiona. Nel mio corto precedente, Illusione, avevo inserito delle fotografie di repertorio. Per De l’amour perdu volevo chiudere con immagini storiche che si legassero al racconto. Ho lavorato come ricercatore negli archivi per alcuni progetti e trovo affascinante come alcune immagini del passato riescano a dialogare col presente.
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