Domenico De Gaetano è dal 19 settembre 2019 il direttore del Museo Nazionale del Cinema di Torino, quel laboratorio magico di idee passate, presenti e future che dal 2000 è all’interno di un’altra meraviglia, la Mole Antonelliana.
Poteva essere un fallimento annunciato il suo, nominato direttore nell’ultimo trimestre dell’ultimo anno di un’epoca che ormai sembra passato remoto e costretto, sei mesi dopo, nel pieno della realizzazione di molti progetti, a chiudere per pandemia insieme al resto della città. Ma lui, come tutta la struttura e la squadra del Museo, non si è demoralizzato e ha continuato a lavorare, a trovare la strada per un posto che è esposizione di memorabilia, centro didattico, esercizio cinematografico – oltre alle sale della Mole ci sono le tre del Cinema Massimo -, motore di ben tre festival, anima del TorinoFilmLab, laboratorio che sostiene giovani talenti nella formazione, nello sviluppo, nel finanziamento e nella distribuzione soprattutto di opere prime e seconde, affiancandolo ad eventi che riuniscono professionisti e artisti di tutto il mondo.
Una realtà che ha creato un mercato di coproduzione di 400 professionisti di più di 50 paesi. “Sono qui al Locarno Film Festival perché in concorso ci sono ben tre opere che sono state sviluppate nel TFL ScriptLab: Home (Baan) opera seconda della regista portoghese Leonor Teles, Sweet Dreams, anche’essa opera seconda ma della cineasta bosniaca Ena Sendijarevič e The Permanent Picture (L’image permanent) della spagnola Laura Ferrés. In questa nostra multifunzionalità siamo unici al mondo anche rispetto agli omologhi, da Melbourne ad Amsterdam, da Los Angeles a Parigi e Berlino”.
Faccia gli onori di casa. Stiamo entrando alla Mole, cosa troviamo in questo momento?
La mostra-percorso didattico (nell’usuale passerella a spirale tipica del Museo in cui pannelli e foto si alternano a raccontare una storia, quasi fosse una sceneggiatura – ndr) Il futuro del cinema – Il cinema del futuro (aperta il 22 giugno, si chiuderà il 7 settembre). Abbiamo voluto costruire anche un po’ provocatoriamente una storia di quest’arte attraverso le sue crisi, legandole alle dichiarazioni profetiche o invece completamente sballate di grandi autori che preconizzavano quasi sempre la morte del cinema e raramente un futuro roseo. Anche se, non faccio spoiler, il più moderno di tutti è il più sconosciuto che però, nel 1931, aveva previsto ciò che probabilmente vedranno i nostri figli.
Ed è questa la poesia del cinema, la capacità che ha di proiettareci oltre il possibile, l’immaginabile. Fabbrica di sogni e di visioni, ma anche di futuro appunto. Avrete grandissime sorprese, Chaplin ad esempio aveva dato al sonoro sei mesi di vita. Oppure scoprirete come Antonioni abbia saputo dare senso al bianco e nero e poi sia stato uno dei cardini del nostro immaginario a colori. Volevamo però raccontarla in modo molto semplice, divulgativo, così da venire incontro a chi di cinema sa poco, ma è curioso di scoprirlo. Leggerete parole illuminanti, in un senso e nell’altro, da Cronenberg a Greenaway. Passando per Zerocalcare che, ovviamente, si è espresso da par suo. Con una vignetta. Sono 24 pannelli.
Niente di più attuale, c’è anche l’intelligenza artificiale?
Certamente. Non solo perché è tema di dibattito attuale, ma perché ripercorrendo questo viaggio di quasi un secolo e mezzo ci siamo resi conto di come il cinema, che è arte e industria allo stesso tempo, abbia necessariamente poggiato le sue fondamenta sull’evoluzione tecnologica – in fondo nasce da un’invenzione, da un’innovazione di due scienziati – e lo sviluppo industriale, che poi hanno influenzato il linguaggio cinematografico, la profondità di campo, l’uso del colore. Abbiamo voluto giocare con la paura che molti di noi, non solo addetti ai lavori, abbiamo sulla possibile invasività dell’intelligenza artificiale. E così abbiamo invitato i visitatori a entrare in una stanza, con un touch screen e a inserire una serie di informazioni da cui poter trarre una sceneggiatura. Dal nome del protagonista all’epoca, dal genere allo stile, indicato dal nome e dalla foto di un grande cineasta. E a quelli viventi che sono presenti in quella slide, invieremo le sceneggiature, per capire anche il loro punto di vista.
Noi le archiviamo – vorremmo fare un libro che le riunisca, con analisi di maestri e critici e ovviamente sceneggiatori -, al visitatore saranno visibili 5 pagine dello script e la locandina. E in cambio dovrà solo rispondere a due domande, se e come lo abbia soddisfatto l’esperimento e quanto il prodotto corrisponda alle sue aspettative e quanto senta sua quell’opera realizzata in 10 secondi dall’AI in base alle sue indicazioni. Il risultato è notevole: su 2500 visitatori, più del 10% ha partecipato. Rispetto a esperimenti analoghi è un dato molto alto. Perché in fondo, a mio parere, sull’intelligenza artificiale, come su ogni trasformazione tecnologica che chiuda un’epoca per aprirne un’altra, non è mai il cambiamento in sé il pericolo, ma il fatto che possa avvenire in assenza di regole.
È una critica ad attori e sceneggiatori che a Hollywood scioperano, in fondo, contro le due ultime innovazioni che la vostra stessa mostra mette in evidenza, l’avvento dello streaming e l’intelligenza artificiale?
Al contrario. Io credo che sia una guerra giustissima da combattere, perché cosa chiedono in fondo? Numeri che dovrebbero essere pubblici, perché d’interesse collettivo, dello spettatore compreso, e la regolamentazione di uno strumento tecnologico che altrimenti potrebbe essere usato incautamente o dolosamente. Credo che il sistema sia cambiato tantissimo, che le piattaforme abbiano rivoluzionato creazione, produzione e distribuzione cinematografica, rotto degli equilibri e finora non ne abbiano instaurati alti.
Servono nuovi contratti, una maggiore trasparenza, appunto nuove norme che regolino i rapporti tra i lavoratori e le grandi società, che non possono e non devono avere tutti i vantaggi di questa rivoluzione senza condividerli con chi permette loro questi enormi guadagni. In questo scontro le grandi multinazionali hanno agito con violenta indifferenza nei confronti dei diritti dei lavoratori, lo sciopero nei termini e nelle richieste fatte è più che giusto. Ora però bisogna trovare una terza via, sperimentare un nuovo equilibrio, in cui tutti siano coinvolti e non ci siano sfruttati e sfruttatori ma alleati.
Come polo museale, avete deciso di non essere solo uno spazio espositivo, ma produttivo e propulsivo. Da voi è più facile aspettarsi l’apertura di un’Università del cinema che l’archeologia. Sembrate decisi a non essere solo uno specchio della Storia, ma a parlare al presente e al futuro.
Noi esponiamo oggetti del precinema, il fenachistoscopio (uno strumento ottico simile alle rotelle dei bambini inserite tra due lenti in cui una serie di disegni simili, con il movimento circolare, si anima – ndr), le scatole ottiche, le lanterne magiche. Oggetti preziosi che raccontano storie, come una sceneggiatura di Fellini, il corpetto di Marilyn Monroe, la vestaglia di Sofia Loren, il mantello di Superman, sono tutte memorabilia che appartengono al passato, che devono essere in qualche modo esposti e raccontati. Ma d’altra parte siamo anche un museo di un’arte che continua a evolversi e continua ad esserci e svilupparsi e quindi dobbiamo raccontare anche i fermenti che ci sono nel presente, come la realtà virtuale a 360, l’intelligenza artificiale e prossimamente i videogiochi.
Ci sono altri stimoli, altre frammentazioni del linguaggio audiovisivo, del mondo delle immagini in movimento, del post cinema, che non possiamo né vogliamo ignorare. Come sarà il cinema tra 10 o 20 anni? Non lo sa nessuno. Potevamo immaginare Netflix ai tempi di Blockbuster? La tessera di quest’ultimo è una reliquia ormai, come le tante vhs con cui non smettiamo di riempire il nostro archivio. Se vogliamo essere un museo del cinema, un’arte che lascia dietro di sé, ogni anno, il vecchio per il nuovo, non possiamo fermarci al 1960 o 1980 o 2000.
Maria Adriana Prolo, fondatrice del Museo e la donna a cui dobbiamo gran parte dell’enorme collezione che abbiamo, fosse viva ancora adesso, che cosa collezionerebbe? Andrebbe sempre alla ricerca di pezzi di Cabiria, di filmati, di pellicole – e conta che abbiamo acquisito pochi giorni fa proprio degli spartiti di quel film – o come già faceva allora, avrebbe cercato oggetti che riguardavano l’audiovisivo nel senso più ampio?
Ecco, io credo che bisogna riuscire a mantenere le due anime, la salvaguardia del passato e la sua valorizzazione, ma anche l’indagine e esplorazione del presente. Quella dell’università è una bella idea, di sicuro potrebbe essere un orizzonte creare corsi altamente specialistici nell’ambito cinematografico, audiovisivo e videoludico.
Quando il Museo Nazionale del cinema riaprì nella sede della Mole Antonelliana, lo fece in un momento molto fertile per Torino, in cui la città sembrava poter fare il salto di qualità grazie a cultura, sport e intrattenimento. Un’illusione durata fino alle olimpiadi invernali del 2006. Ora può ripartire dal comparto culturale e in particolare cinematografico per rinascere dopo essere stata “abbandonata” dalla Fiat?
Secondo me sì, nel senso che Torino è una città molto bella da vivere, sa essere un grande paese e una piccola città, vivibile e allo stesso tempo metropoli con un’offerta artistica e culturale davvero di altissimo profilo. In più è una città giovane, grazie all’università, al Politecnico, ma per diventare quello che dici ha bisogno di una cosa, in particolare: dare spazio ai giovani. Se vogliamo riprogettare la città, attraverso una serie di parole e settori e argomenti chiave, possiamo farlo solo con il loro aiuto. E sicuramente il cinema può essere il volano di questo cambiamento, Torino è stata la prima capitale, può anche essere la prossima, in senso ovviamente figurato. Però dobbiamo proiettare Torino nel futuro.
Per questo noi, nel ripensare il Museo, lo stiamo facendo anche attraverso l’assunzione di molti ragazzi, parlo di ventenni, e c’è l’idea di sostituire chi andrà in pensione con elementi della cosiddetta Generazione Z, in un patto generazionale possa trarre competenze e conoscenze dai più vecchi restituendo una prospettiva altra e alternativa. Solo loro possono indicarci la strada, insieme al prossimo comitato scientifico vorrei formarne uno di giovani. E li vorrei nei gangli più importanti, dai social alla VR 360, fino alla programmazione del cinema Massimo.
Veniamo a un altro “asset” (im)portante del Museo, il Torino Film Festival. Sa, vero, che la scelta di Giulio Base ha creato più di uno scetticismo?
Io ho fatto un anno con Emanuela Martini che rappresentava la continuità, assistente di Moretti, Amelio e Virzì e poi direttrice in prima persona. Poi abbiamo fatto un bando per trovare appunto nuove leve ed è stato scelto Stefano Francia di Celle, che dopo lo sfortunato anno del Covid ha fatto un’ottima edizione ma poi ha preferito tornare in Rai. A quel punto, in emergenza, abbiamo chiesto a uno dei fondatori, Steve Della Casa, di darci una mano e ci ha portato la sua competenza, la sua cinefilia e la sua capacità di creare empatia e divertimento, con lui il festival sa essere sempre rocambolesco.
Ora c’è Giulio Base, che sicuramente rappresenta una rottura, farà un festival diverso come d’altronde hanno fatto quelli che ho citato, portando ognuno una parte di sé, ognuno delle novità interessanti. Quello che posso dire è che stata una scelta fatta con cura, attenzione, dopo un lungo dibattito, non sono mai decisioni facili e ogni tanto bisogna avere il coraggio di buttarsi, rischiare. A noi ora il compito di creare attorno a lui un atteggiamento positivo, di saperlo supportare. Ricordando sempre che il nostro è un festival cinefilo, d’avanguardia ma anche popolare e cittadino, una fertile contraddizione che l’ha reso unico al mondo nello scoprire nuovi talenti non dimenticando di sedurre il pubblico. Però ora ci aspetta un’altra edizione diretta da Steve, quindi godiamocela, che sarà bellissima.
Ci svela il desiderio che ha realizzato da direttore e il sogno ancora da realizzare?
Beh, quello che ha realizzato è la prossima mostra, su Tim Burton, ho ancora negli occhi quella del MoMA di una decina d’anni fa, una folla che faceva fatica a stare ferma di fronte ai suoi disegni, venivi trascinato dalla moltitudine dei visitatori. Era la mostra che ho sempre sognato e ora siamo a poche settimane dal grande evento (verrà inaugurata il 10 ottobre) e mi emoziona solo pensarla, anche perché, parliamoci chiaro, la Mole Antonelliana è una perfetta location burtoniana, un po’ alla Sweeney Todd. Ricostruiremo a grandezza naturale e in ogni particolare il suo studio, ci saranno sculture, i suoi disegni appesi, video e i suoi primi cortometraggi: è come se da quella scrivania, da quella sedia lui si sia alzato e ci abbia lasciato, al Museo, questa fantasticheria meravigliosa. E lui sarà lì con noi, ad aprirla. Sarà un’impresa: avremo anche il merchandising, una cosa che abbiamo inaugurato ora con La mole delle meraviglie di Stefano Bessoni ma che chiaramente, in questo caso, sarà un muro ancora più alto da scalare.
Il sogno da realizzare? Ora come ora Johnny Depp, sarebbe il coronamento di una serie di bellissime masterclass che stiamo facendo. E Christopher Nolan. Il giorno che viene, lo chiudo dentro il museo per 24 ore. So che se ne innamorerebbe.
A proposito di masterclass, furono pesanti le polemiche per quella con Kevin Spacey.
Sapevamo a cosa stavamo andando incontro, ma ci stiamo dimenticando, in questi anni che un luogo d’arte non è un tribunale. E di sicuro non è un posto in cui si viola il principio dell’innocenza fino a prova contraria. Non nascondo che l’evoluzione giudiziaria del caso Spacey, le sue assoluzioni mi hanno fatto ripensare a quei giorni, a come un’istituzione coraggiosa sia stata attaccata. Ecco perché voglio solo ricordarmi la sua lezione di cinema e di vita strepitosa, che abbiamo ripreso anche in VR 360 e presto riproporremo, magari con l’aiuto di Rai Cinema.
La mostra dopo quella di Tim Burton quale sarà?
Di sicuro ne faremo una più semplice. Scherzi a parte, vorrei fare qualcosa sulle serie televisive. C’è un rapporto di amore-odio di questo Sistema verso questo mondo, ma sono diventate fondanti sia del settore che dell’immaginario. Ogni regione italiana ne ospita una, in tutto il mondo si vive una fertilità creativa di questo formato narrativo.
Sui videogiochi aspetta il 2025?
C’è molto lavoro da fare, non vogliamo che vi sia alcuna approssimazione, intendiamo fare la più grande, completa, approfondita esposizione in merito, qualcosa che possa essere itinerante, viaggiare in tutto il mondo. E le implicazioni teoriche, pratiche, di iterconnessione con il cinema sono così tante che nulla può essere lasciato al caso. Dev’essere un evento internazionale che cambierà il modo di guardare quel settore, una mostra che sarà seminale per il futuro.
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