Come diceva un critico degli anni d’oro, i grandi film si dividono in due categorie: quelli che ballano e quelli che volano. El Conde è un film che vola, in tutti i sensi. Non solo perché il Pinochet ultracentenario di Pablo Larraín vola con il mantello aperto sopra una Santiago del Cile luccicante di soldi e di sangue, il sangue versato per stroncare l’esperimento di Allende e riportare il Cile al suo ruolo di satellite degli Usa. Ma perché lo stesso Larraín si libra sopra secoli di Storia e di orrori usando i vampiri come la metafora, anzi come l’arma più forte. Il che significa anche cedere al loro fascino, almeno in parte. Esaltarne la potenza mortifera. Riconoscere il loro potenziale di seduzione in una farsa macabra in bianco e nero che non si ferma davanti a nulla. Usando la dicotomia più universale che esista, vecchiaia/gioventù, per ricordarci come il Potere, in ogni epoca e luogo, sia quasi sempre una faccenda di vecchi che succhiano energie e risorse ai giovani.
Ed ecco questo Pinochet ripugnante e sentenzioso (i dialoghi sono affilati come ghigliottine) che sopravvive da qualche parte sulla costa cilena in una grande villa-maniero zeppa di ridicoli ricordi militari, e forse non ne può più. Bere sangue e strappare altri cuori per continuare a vivere con la moglie e il maggiordomo devoti? Oppure smettere, farla finita, uscire di scena con dignità? Dopo secoli di infamie (il vampiro Pinochet era ovunque qualcuno lottasse per la libertà, in Russia, a Haiti, in Algeria…) il problema non è più il potere. Sono i quattrini. Le proprietà immobiliari, i conti segreti, l’immensa fortuna personale accumulata da Pinochet (l’interprete, che purtroppo nessuno premierà, è il fantastico Jaime Vadell).
Figli diversamente manigoldi
Solo che il vecchio, come in tutte le farse, non vuole saperne di crepare. E i suoi cinque figli diversamente manigoldi, arrivati trascinando i loro trolley su quelle rive fangose (come in El Club, altro grande film di Larraín), cominciano a cospirare e litigare per l’eredità. Incalzati anche loro da una metafora che svolazza come un pipistrello nelle direzioni più inaspettate, mentre una misteriosa voce narrante inglese ci guida fra i segreti dinastici e non solo di quella vasta ma poco amabile famiglia. Con un’andatura libera e divagante che delizierà chi ammira il regista di Tony Manero, Post Mortem, Neruda (figlio, ricordiamolo, di un ministro di Pinochet nonché capo dell’Opus Dei cilena), ma forse sconcerterà gli adepti dello storytelling più rotondo.
Chi è quella suora col dono della matematica che parla perfettamente francese e sembra la Giovanna d’Arco di Dreyer (Paula Luchcsinger)? Perché malgrado tutto è così sensibile al fascino senile del tiranno-vampiro (beh, a vederla volteggiare su campi e marine come un personaggio di Chagall, possiamo capirla). Cosa vuole esattamente da Pinochet e da sua moglie quel maggiordomo russo, “un cosacco forgiato dalla vodka e dall’acciaio”, che ha il volto glorioso di Alfredo Castro, complice di Larrain fin dai suoi esordi?
El Conde e la nave di Nosferatu
Sostenuti dall’inesauribile mitologia vampiresca (tra le citazioni spicca l’inquadratura di una nave che rimanda al Nosferatu di Murnau), Larraín e il suo sceneggiatore Guillermo Calderon tuffano golosamente le mani fra i crimini di Pinochet fedeli a un’idea centrale, la stessa di El Club. Il Male non solo è eterno ma unisce, federa, costringe a stare vicini anche nell’odio e nella sopraffazione. Non è solo l’arma, è anche la droga più forte (Larraín ha sicuramente visto The Addiction di Abel Ferrara). Per questo El Conde non smette di oscillare tra fascino e ripugnanza. Da una parte la leggerezza delle scene di volo. Dall’altra la pesantezza di quei volti cadenti che magari si baciano voluttuosamente in primo piano.
Trasformare una figura storica come quella del generale che tradì Allende (in tv passa velocemente il bombardamento della Moneda), per giunta mai indagato prima dal cinema, non è senza rischi. Significa aggiungere fascino, umorismo nero, divertimento, a una delle figure più sinistre del Novecento e oltre. Magari passando sostanzialmente sotto silenzio il ruolo degli Usa nel golpe cileno, su cui sono usciti proprio in questi giorni nuovi documenti.
Come strappare il cuore
Ma Larraín prende molto sul serio la sua metafora e malgrado la struttura da farsa non cede di un millimetro sull’orrore. Il tono è comico ma il film resta sinistro da cima a fondo, e chissà come verrà preso nei famosi 193 paesi di Netflix, dove sarà visibile dal 15 settembre (4 giorni dopo l’11 settembre, cinquantenario del golpe). Tutte quelle istruzioni su come strappare un cuore nel modo migliore, quel sarcasmo sul gusto squisito del sangue britannico, contrapposto al retrogusto untuoso di quello latinoamericano, quei dialoghi su cosa dia più soddisfazione, uccidere o rubare, portano una nota inquietante in un genere rassicurante. Anche questo è un gesto politico forte. Chissà come lo prenderà la giuria.
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