Centoventi location, un centinaio di persone tra troupe e produzione, riprese tra paesini, foreste e montagne per un’opera dall’anima raminga, che a partire dal 9 novembre potrà finalmente fermarsi nelle sale cinematografiche. Lubo – ultimo italiano in concorso a Venezia 80 – è il film di Giorgio Diritti su un uomo di etnia jenisch, una popolazione nomade, cui vengono sottratti i tre figli mentre sta prestando servizio al fronte. “Racconto una piccola comunità, ma parlo di un mondo più grande, universale”, racconta il regista, chiarendo il filo conduttore che lega tutti i suoi film a partire dal primo, Il vento fa il suo giro, del 2005.
Il protagonista di Lubo, interpretato da Franz Rogowski e tratto dal romanzo Il seminatore di Mario Cavatone, viene separato dalla sua famiglia e spedito al fronte, nel 1939, per prevenire un’eventuale offensiva tedesca. Ormai lontano, apprenderà della morte della moglie e del “rapimento” dei suoi bambini, separati dalla famiglia in nome del programma Kinder der Landstrasse – una vera e propria operazione di “pulizia etnica”, volta a a sradicare dalla Svizzera la cultura jenisch.
“È un limite dell’uomo, quello di arrogarsi il diritto di distruggere le diversità e dire agli altri come dovrebbero essere – ha spiegato a Venezia il regista (sceneggiatore del film con Fredo Valla) – continuiamo a lottare per reprimere le diversità, invece che comprendere il valore delle differenze. Sono errori che hanno gravissime ripercussioni sulle generazioni future”.
Lubo: storia di uno, storia di tanti
Lubo, per il suo autore, è un’opera che guarda con speranza ai giovanissimi di oggi e a quanto sia fondamentale difenderne l’identità: “I bambini sono il domani, possiedono una carica positiva fortissima. Dobbiamo salvaguardarne l’energia e reagire alle ingiustizie. Troppo spesso deleghiamo ai social media il compito di educare e comunicare con i bambini e gli adolescenti”.
La vicenda di Lubo ha più di un punto di contatto con il Rapito di Marco Bellocchio, altra storia di rapimenti (quello di Edgardo Mortara, il bambino ebreo battezzato in segreto) e rieducazioni forzate. “È stata una coincidenza. Sia Marco che io ci siamo guardati alle spalle per raccontare un periodo storico e riportarlo al presente con sensibilità. Forse nell’aria c’è qualcosa, un senso di allarme che risuona e ci mette in guardia, spronandoci alla difesa dei più giovani. Ogni uomo e ogni donna deve crescere libero, senza costrizioni. Ciò che accadde in Svizzera è simile a ciò che ha raccontato Bellocchio in Rapito: la totale rimozione del legame con la famiglia. Qualcosa che ha a che fare con la persecuzione razziale subita dalla comunità ebraica”.
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