Giuliano Montaldo e Venezia. Una storia cominciata male e proseguita meglio. Non si può che partire dall’inizio, da quella volta che il regista voleva cambiare mestiere. Fu invitato a Venezia per la sua opera prima, Tiro al piccione: “Fu un’avventura dolorosa. Era il mio film d’esordio. Lavoravo nel cinema ormai da dieci anni, avevo esordito come attore con Lizzani in Achtung! Banditi!, avevo fatto l’aiuto regista per lo stesso Lizzani, per Petri, per Pontecorvo. Insomma, mi sentivo pronto. E quando mi proposero di trarre un film dal romanzo autobiografico di Giose Rimanelli, Tiro al piccione appunto, accettai con entusiasmo. Il film raccontava la storia di un ragazzo che dopo l’8 settembre 1943 va a combattere con i repubblichini e vive un’avventura dolorosa e tristissima, capendo solo nel finale che la “patria” era dall’altra parte, non da quella dove combatteva lui. Pensai che valesse la pena di parlare di questi personaggi, di questo loro errore. Ma era la prima volta che se ne parlava al cinema e a Venezia, nel 1961, la reazione fu del tutto inaspettata. Applausi calorosi del pubblico, critiche terribili da destra e da sinistra. Penso che da sinistra ci attaccarono anche perché uno degli sceneggiatori, Fabrizio Onofri, era un ex dirigente del PCI uscito dal partito dopo l’invasione dell’Ungheria…Scoprii con amarezza, insomma, che il piccione ero io. E che il film era, per così dire, fuori tempo: non era ancora il momento giusto per parlare di quel tema”.
Facciamo un salto di quasi sessant’anni. 2019: Tiro al piccione, restaurato a cura della Cineteca Nazionale, viene selezionato per Venezia Classici, la sezione della Mostra dedicata appunto ai restauri. Per Montaldo, che è presente, è una bella rivincita. Il film viene molto applaudito, qualche critico lo ri-recensisce e stavolta le incomprensioni di un tempo non ci sono più. Ora Tiro al piccione è accanto a L’Agnese va a morire, l’altro grande film che Montaldo ha dedicato alla Resistenza e in particolare alle donne che rischiarono la vita come staffette, pedalando sodo per portare messaggi e cibo ai partigiani, il tutto in un ambiente inospitale e pericoloso (tutto piatto, totale assenza di nascondigli…) come le Valli di Comacchio. E naturalmente insieme agli altri grandi film di Montaldo, a cominciare da quel Sacco e Vanzetti con il quale il regista andò a cercare le sue storie di intolleranza politica nell’America del primo Novecento. Il film doveva intitolarsi Intolerance come il capolavoro di Griffith, poi si preferì usare i nomi dei due anarchici ingiustamente giustiziati.
Sacco e Vanzetti ebbe una risonanza internazionale anche grazie alle due famose canzoni eseguite da Joan Baez, Here’s to You e The Ballad of Sacco and Vanzetti. La storia di come la celebre folk-singer fu coinvolta è famosa ma è sempre bello ricordarla. Parlando con Ennio Morricone, che avrebbe scritto le musiche, Montaldo ripeteva sempre: “Ci vorrebbe una bella ballata, tipo le canzoni di protesta degli anni ‘60”; e Morricone gli ribatteva: “Sì, e chi la canta? La canti tu?”. “Ci vorrebbe Joan Baez”, disse un giorno Montaldo, e Morricone fece una faccia come dire, sì, vabbè, e dove la troviamo? Un giorno Montaldo va a New York in cerca di locations e di co-produttori (girarono qualcosa a Boston, ma il grosso del film fu girato in Irlanda), esce una mattina dall’albergo e incontra per caso Furio Colombo, allora inviato della RAI. Si salutano: come stai?, che fai qui?, le solite cose. Montaldo gli dice: “Sto preparando questo film su Sacco e Vanzetti, mi piacerebbe chiedere a Joan Baez di cantare una canzone, ma non so davvero come trovarla”. Colombo lo guarda sornione: “Stasera viene a cena a casa mia”. Montaldo gli dà una copia della sceneggiatura, la Baez la legge nella notte e la mattina dopo lo chiama: sarà nel film. L’impatto internazionale di Sacco e Vanzetti culminò il 23 agosto del 1977 (50esimo anniversario dell’esecuzione) quando il governatore del Massachusetts Michael Dukakis riconobbe ufficialmente l’errore giudiziario e il dolo dei magistrati, e Montaldo fu invitato alla riabilitazione per il contributo dato con il suo film.
Sacco e Vanzetti fu presentato a Cannes, ma fra l’impallinamento e la rivalutazione di Tiro al piccione il rapporto fra Montaldo e Venezia non è mai venuto meno. Negli anni in cui era Presidente di Rai Cinema Montaldo era presenza fissa al Lido durante la Mostra, e sempre al Lido si svolse una parte importante delle riprese di Marco Polo, il kolossal tv diretto all’inizio degli anni ’80. La cosa potrà apparire bizzarra, ma era impossibile girare scene del Marco Polo nella vera Venezia, perché all’epoca del grande viaggiatore (seconda metà del Duecento) la città e la stessa piazza San Marco erano molto diverse. La produzione individuò quindi un’area di Malamocco, sull’isola del Lido, dove gli scenografi (Luciano Ricceri, Paolo Biagetti e Franco Velchi) poterono ricostruire da zero una piazza San Marco “filologica”, basandosi su dipinti dell’epoca. Per i giorni di riprese, quindi, Malamocco – un paesino tranquillo e delizioso, lontano dai fasti e dal caos della Mostra – divenne Hollywood, e in seguito la struttura venne mantenuta con la possibilità, per il pubblico, di visitarla. Poi, come sempre, la smantellarono. Il cinema non conserva nulla!
A chi scrive è capitato, intervistando moltissime volte Montaldo (nel 2005 gli abbiamo dedicato un lungo libro-intervista, Dal Polo all’Equatore. I film e le avventure di Giuliano Montaldo, edito da Marsilio), di chiedergli come mai un genovese come lui abbia cantato le gesta di un veneziano del Medioevo, anziché di un illustre concittadino come Cristoforo Colombo. Per la cronaca, lo sceneggiato tv su Colombo lo fece nel 1985, due-tre anni dopo Marco Polo, il milanese Alberto Lattuada. La risposta di Montaldo fu bella, in linea con la sua dirittura morale: “Sono contento di aver raccontato la storia di Marco Polo perché in lui c’è una voglia di scoperta, una curiosità umana prima ancora che commerciale – anche se era pur sempre un mercante – che lo portò a innamorarsi della Cina, a imparare la lingua, a diventare un uomo importante in due continenti. Non mi piace Colombo, o meglio, non mi piace l’esito della sua avventura. Lavorava per dei re, avidi di conquiste e ricchezze. ‘Scoprì’ un continente senza nemmeno rendersene conto, e senza volerlo dette il via a un genocidio. Al di là dell’ammirazione per il navigatore, che un genovese non può reprimere, la sua è una storia che non mi affascina”.
Una storia che invece affascinò moltissimo Montaldo, e che pure ha “agganci” veneziani importanti, è quella raccontata in Giordano Bruno. Il film sul grande filosofo, interpretato (come Bartolomeo Vanzetti) da Gian Maria Volonté, si svolge fra Venezia e Roma ma anche qui si dovette barare. In questo caso, è del tutto evidente che non si poteva girare il rogo di Giordano Bruno nella vera piazza dove il filosofo fu arso vivo, ovvero Campo de’ Fiori a Roma, fosse solo per il banalissimo motivo che nella piazza – per altro, oggi, piena di pub, ristoranti e bar assai poco cinquecenteschi – si trova la statua… di Giordano Bruno, appunto! Il rogo fu girato a Tarquinia, mentre molti interni – sia romani sia veneziani, nella finzione – furono girati a Caprarola (provincia di Viterbo), nel Palazzo Farnese visto in dozzine di film. Ci sono però, nel film, anche veri esterni veneziani: la Chiesa di San Giorgio Maggiore, sull’isola omonima, e il Palazzo Soranzo/Van Axel in Fondamenta delle Erbe. Insomma, il legame fra il genovese Montaldo e Venezia, che in qualche misura “sana” la rivalità dei tempi delle Repubbliche Marinare, è stato profondo e proficuo. Non ha mai vinto il Leone d’oro, ma è un po’ colpa sua – o meglio, dei produttori e distributori dei suoi film, nonché dei vari direttori e selezionatori della Mostra: non è quasi mai andato in concorso a Venezia, privilegiando Cannes e Berlino, quindi… Certo, nel 1987 l’avrebbe meritato per Gli occhiali d’oro, ma si prese solo un’Osella per scenografia e costumi (a Nanà Cecchi e a Luciano Ricceri).
Oddio, a ripensarci: Montaldo, in realtà, un Leone d’oro l’ha vinto. Per La battaglia di Algeri, nel 1966. Certo, è un film di Gillo Pontecorvo. Ma Montaldo era il suo aiuto, e girò parecchie scene importanti. Pontecorvo voleva anche che interpretasse l’ufficiale dei parà, ruolo poi andato al francese Jean Martin: “Sei alto, sei bello, sei perfetto”, gli diceva. Montaldo lo convinse così: “Senti, Gillo. Per metà film si parla di questo terribile colonnello Mathieu: arriva, non arriva, quando arriva? Ora, immagina la proiezione del sabato pomeriggio all’Adriano, a Roma: tutti aspettano di vederlo, con un misto di terrore e di suspense, poi arrivo io e la gente dice: ma è quel coglione di Montaldo, e scoppiano a ridere”. Pontecorvo si convinse. E Montaldo rinunciò a un ruolo da Leone d’oro…
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