Il titolo originale, Yurt, significa “dormitorio” ma in Turchia la parola doveva suonare sinistra soprattutto verso la metà degli anni Novanta, quando la rete di dormitori islamici destinata agli studenti ed estesa sull’intero territorio nazionale era in prima linea nel diffondere i valori tradizionali e preparare il ritorno dell’islamismo che avrebbe accompagnato il paese del laicissimo fino ai nostri giorni.
Opera prima di Nehir Tuna, un giovane turco già autore di molti corti fra i quali un prequel di questo film, nonché allievo del Sundance e della Columbia University, dunque già perfettamente padrone di un levigato e consapevole linguaggio da cinema d’autore intessuto di echi anni 60, Yurt, ha per protagonista un quattordicenne di nome Ahmet, palese alter ego del regista, che viene mandato dal padre neo-musulmano in uno di questi dormitori islamici anche se di giorno continua a frequentare una scuola laica. Dove peraltro si sente sempre più a disagio, tanto da tenere accuratamente nascosta ai propri compagni – in testa la bella giocatrice di pallavolo protagonista delle sue polluzioni notturne – quella strana condizione un poco schizoide.
Non è solo un problema culturale e politico. Il padre, probabilmente anche grazie alla sua conversione, è un imprenditore che ha realizzato una discreta scalata sociale e figura fra i benefattori dell’istituto, frequentato invece per lo più da ragazzi di classi basse ma anche molto più scaltri e spietati dello spaesato Ahmet.
Bullismo e sette segrete
Il clima è quello tipico di queste istituzioni totali, bullismo, scherzi pesanti, escrementi sul letto, goliardia, sette segrete e molto esclusive in cui Ahmet naturalmente non riesce a penetrare. Con frequenti punizioni corporali, anche a suon di cinghiate e di ceffoni inflitti e ricevuti (dopo aver preso uno schiaffo dal maestro, i ragazzi puniti devono continuare a prendersi a manate in faccia davanti ai compagni, un sistema “educativo” che abbiamo visto all’opera di recente in altri film di area islamica).
Anche a casa e nel paese comunque l’aria si fa sempre più pesante. La madre di Ahmet non condivide la scelta dello Yurt, mentre il pater familias, con le sua bella casa e le sue macchine sportive ha idee molto arretrate su come educare un figlio. Intanto dagli schermi televisivi, ma presto anche nelle strade, comincia a filtrare l’insofferenza sempre più violenta di quella parte ancora maggioritaria di Turchia che rifiuta con fermezza il ritorno dell’islamismo.
Le fantasie di Ahmet
Il resto lo fa il tasso di testosterone, che a quell’età è sempre molto alto, e la crescita confusa di Ahmet, che fantastica sulla bella pallavolista ma è anche segretamente attratto da un compagno di scuola molto più svelto e disinvolto di lui. Attrazione che finirà per mettere nei guai entrambi, non nel modo banale a cui penseremmo subito in Occidente ma seguendo strade contorte e spietate intessute di revanscismo e odio di classe. Il tutto scolpito in un bianco e nero molto classico e di sicura efficacia che si apre al colore solo verso la fine sulle note, sorpresa, della vecchia canzone di Nada, Ma che freddo fa, che qui diventa un inno alla libertà se non all’amore.
Il bivio di Nehir Tuna
Prodotto da Turchia, Francia e Germania con il sostegno del Sundance Institute, il classico film che una volta al Lido avremmo trovato nel Concorso ufficiale mentre oggi deve accontentarsi di Orizzonti, che oltre a essere competitiva è comunque a tutti gli effetti una “corsia di sorpasso” per dirla con il nome di una vecchia sezione veneziana.
E chissà se in futuro Nehir Tuna, anche lui a un bivio come il suo protagonista, sceglierà la strada del racconto ben fatto per le grandi platee internazionali o punterà su un cinema ancora più decisamente originale e personale.
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