C’è una scena della quarta stagione di Ally McBeal – per la precisione: episodio venti, titolo Un cliente speciale – in cui Robert Downey Jr. canta. Si cimenta in Every Breath You Take, canzone dei The Police, uscita nel 1983 e primo singolo estratto dall’album Synchronicity (brano che alla serialità piace tanto, tra gli ultimi utilizzi c’è la scena del ballo del finale della terza stagione di Stranger Things).
Il personaggio dell’attore americano, Larry Paul, ha una relazione con la protagonista Ally, l’iconica Calista Flockhart nel ruolo dell’avvocatessa di Boston, che ha appena trascorso un compleanno non pienamente soddisfacente. Per tirarle su il morale il partner non solo le dedica la canzone, eseguendolo in prima persona, ma sorprende tutti chiamando a rapporto il leader del gruppo britannico (“Non è così facile”, dice Ally a Paul. “Ho portato Sting”, risponde lui giustamente).
L’elemento da sottolineare della sequenza di Ally McBeal non è il canto in sé, con Downey Jr. che dimostra comunque di avere una voce sensuale e affascinante, piena dello stesso charme con cui riempie sempre lo spazio, fuori e dentro la scena. Ma è la maniera in cui l’attore soggioga gli spettatori, come fossero tutti al posto della sua amata nella serie.
La musica parte, il palco del pub è al buio, in controluce una figura si staglia di fronte a un microfono. Fari. Robert Downey Jr. si esibisce e i suoi occhi incollano allo schermo. In quel momento sta guardando Ally/Calista, ma sta guardando anche te. Un superpotere, prima ancora della tuta di Iron Man nel 2008. Catturare con forza centripeta il pubblico, diventandone il sole.
Lo sguardo ammaliatore
Gli occhi di Robert Downey Jr. sono l’espressione dell’appeal dell’attore e dell’incantesimo che lancia a chi gli sta accanto (o dall’altra parte, direttamente oltre schermo), e a cui bisogna prestare particolare attenzione durante la performance nel biografico e roboante Oppenheimer, per la quale ha ottenuto il Golden Globe nella categoria miglior attore non protagonista.
Downey Jr. interpreta Lewis Strauss, figura centrale nello sviluppo della politica e diffusione delle armi nucleari, Presidente della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti d’America e “nemico”, nella trasposizione cinematografica del romanzo su cui si basa, dello scienziato impersonato da Cillian Murphy. Perché gli occhi? Il motivo è semplice. Fulmineo, come alcuni sguardi che l’attore riserva alla camera e, perciò, allo spettatore.
La parte di Lewis Strauss, stratificata e continuamente mutabile fino alla conclusione del film di Christopher Nolan, è forse quella che ha richiesto maggiore immedesimazione da parte dell’interprete, che aiutato da trucco, abiti e acconciatura si perde completamente nel ruolo – vero che per Fur – Un ritratto immaginario di Diane Arbus era ricoperto interamente da una pelliccia, ma quella era un’altra (fantastica, nel senso del genere d’appartenenza) storia.
Strauss è l’antitesi di Robert Oppenheimer. È colui che lo ammira e che trasforma la venerazione in invidia. L’amplificata quando si rende conto che il creatore della bomba atomica non ha alcun interesse nel condividere gli stessi orizzonti e obiettivi (disprezzandolo, quasi). Né dal punto di vista etico, né lavorativo o morale.
In questo perdersi interamente in Lewis Strauss, lo spettatore dimentica quasi, nel corso della pellicola, di trovarsi davanti a Robert Downey Jr.. Lo aiuta anche il bianco e nero, e i flash di un film che non è fatto solo di sequenze, ma di veri e propri fuochi d’artificio a richiamare le esplosioni storiche e quelle interiori dei personaggi. Ci finisce a capofitto nella mente, nella gestualità, nella posizione: fisica, quando deve muoversi tra corridoi e stanze in cui si determinano i destini del mondo; mentale nel momento in cui decide di voler battere il suo “avversario”.
Oppenheimer, Robert Downey Jr. e il ruolo di una carriera
In questa completa incarnazione, però, Downey Jr. flirta ancora una volta con lo sguardo, strumento principale con cui sceglie di comunicare col pubblico. Nel corso di Oppenheimer, e delle varie scene in cui compare, con fare impercettibile l’attore volge fugacemente gli occhi nella direzione del pubblico, come gli stesse svelando un segreto.
E quel segreto è proprio che c’è lui dietro la maschera di Lewis Strauss. È lui, Robert Downey Jr.. Quasi fosse un tic con cui, solamente per un istante, esce fuori dal ruolo, creando un contatto, un ponte con gli spettatori per ricordargli chi c’è dietro al carro armato che cerca di asfaltare Oppenheimer.
Un vezzo, piccolissimo, ma che appartiene all’aurea di un divo che calca le scene da quando ha cinque anni – la prima volta fu col padre Robert Sr. per Pound (1970) – e che sta dicendo a chi lo guarda: “Sì, sono io, vedete cosa sto combinando?”. Lo attira un’altra volta, il pubblico. Lo conquista aggiungendo alla sua interpretazione magistrale (perché di questo si tratta) un marchio di fabbrica, che è il saper ammaliare con malizia le persone. E poi torna in parte, immediatamente.
Un attimo solo per giocare con lo spettatore e dare poi la miglior prova della sua carriera. La fa detonare lui, la bomba, trovando la consacrazione di una carriera vertiginosa, tra grandi ruoli, supereroi, rehab e fasti paterni, tutti in un’unica interpretazione.
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