Rami. Solo rami. Spogli, perché è inverno. Una foresta inquadrata dal basso in una lunga carrellata che ha un unico scopo. Portarci in un altro mondo, che poi è il nostro. Farcelo guardare con occhi diversi. Farcelo vedere per ciò che è.
Il film più sorprendente visto in Concorso a Venezia – Il male non esiste di Ryusuke Hamaguchi – parte così, scatenando un gioco di libere associazioni spinte dalla colonna sonora ipnotica di Eiko Ishibashi, la stessa compositrice di Drive My Car. Quei rami contorti contro il cielo bianco sembrano segni, pagine di una scrittura segreta. Forse sentinelle. Viene in mente perfino la foresta di Biancaneve… La Natura è un libro da decifrare, ovvio. È anche la vera protagonista del film, una protagonista invisibile ma onnipresente come l’aria che respiriamo. Lo ribadisce il taciturno Takumi, che dopo aver tagliato la legna e travasato con gesti meticolosi l’acqua del ruscello in una serie di taniche, porta la figlia bambina nella foresta insegnandole a “leggere” gli alberi, le tracce degli animali, i pericoli nascosti.
Il prologo culmina in un laghetto gelato di arcana bellezza. È lì che si abbeverano i cervi, spiega Takumi alla piccola Hana. Nessun lirismo però. Niente estetismi. La Natura “è”, e basta. Non conosce il bene e il male, né il bello e il brutto. La bellezza è un problema nostro. Ma è anche una merce.
Su quelle montagne vicino Tokyo sta infatti per nascere un “glamping”, oscena crasi fra glamour e camping. Un’attrattiva per turisti eco-chic destinata a stavolgere gli equilibri naturali della zona e la vita dei suoi abitanti. Segue riunione con la cittadinanza. I due funzionari dell’agenzia di spettacolo che ha lanciato il progetto, un uomo e una donna, si arrampicano sugli specchi incalzati dai locali, tutt’altro che sprovveduti. Emergono furberie, reticenze, piccoli e grandi abusi. Sembra tutto chiaro. Il male non esiste racconterà l’orgoglio, la resistenza, la rivolta. E invece no, non siamo in un film americano.
Gli esponenti della comunità minacciata, così simpatici, il vecchio sindaco, la signora che teme gli incendi, il giovane biondo e collerico, escono di scena con poche eccezioni. Il racconto segue a Tokyo i due poveri topi di città mandati allo sbaraglio. Ci saranno videoconferenze, malefatte legali e attentamente pianificate, un lungo viaggio durante il quale scopriremo molte cose su quei due cittadini frustrati (per il regista di Drive My Car l’auto è il luogo della verità). Poi un’imprevedibile resa dei conti con la Natura, imprevedibile per i modi oltre che per gli eventi. Il tempo che sembrava così lento di colpo si rimette in marcia, accelera, ci viene addosso. Ciò che sembrava ridicolo svela il suo lato tragico. Tutta quella bellezza in pericolo diventa una trappola. La luna che balugina tra i rami alla fine sembra venire da La storia della Principessa splendente di Isao Takahata, per citare un altro capolavoro giapponese, e fa paura.
Il male non esiste non è solo il più bel film visto finora a Venezia, è anche il più coraggioso. Un modello di originalità, economia, semplicità nella complessità, che nel nostro paese di incendi dolosi e orse ammazzate, è da augurarsi, dovrebbe lasciare un segno.
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