“Signor Goldman, lei è quello che si dice un ribelle” asserisce il giudice. “Rivoluzionario nell’animo”, conferma l’imputato. Pierre Goldman nacque a Lione nel 1944 da due ebrei polacchi, partigiani ed eroi della Resistenza francese. Fu disertore, guerrigliero e rapinatore, forse assassino, scrittore e intellettuale. Morì a Parigi ammazzato da nove misteriosi colpi di pistola una mattina del 1979.
Presentato in prima visione italiana al Noir in Festival di Milano, l’attesissimo film diretto da Cèdric Kahn, Le Procès Goldman, è interamente ambientato nell’aula di un tribunale, nel corso del secondo processo a Pierre Goldman del 1975. Uscito a fine settembre in Francia, al Festival di Cannes aveva aperto la Quinzaine des Cinéastes sortendo critiche entusiaste.
Pierre Goldman è un personaggio leggendario dell’estrema sinistra francese. Cresciuto con il mito del padre, che era fuggito ai pogrom e arrivato in Francia aveva partecipato alla Resistenza, Goldman aveva passato la vita a cercare cause altrettanto grandi cui dedicarsi anima e corpo. Era stato militante in diversi gruppi di matrice comunista, si era opposto alla guerra del Vietnam, era stato a Cuba dove aveva conosciuto Fidel Castro e aveva combattuto da guerrigliero sulle montagne del Venezuela al fianco di Oswaldo Barreto. Tornato in Francia, frequentò soprattutto la comunità antillana, di cui faceva parte anche la sua compagna Christiane Succab, rivoluzionaria e giornalista. Fra il 1969 e il 1970 compì diverse rapine per le quali venne condannato all’ergastolo: Goldman si dichiarò colpevole per tutte, tranne l’ultima, in cui sarebbero morte due farmaciste. Lui, non avrebbe mai ucciso nessuno.
È l’amico e scrittore Jean Genet a suggerirgli di scrivere un’autobiografia mentre si trova in carcere, in seguito al primo processo. Il libro si intitolerà Souvenirs obscurs d’un juif polonais né en France: ed è proprio su questa identità ebraica e di figlio di immigrati militanti che Goldman costruisce la propria difesa e soprattutto la propria accusa allo Stato e alla polizia francese, razzista e antisemita, rimarcando invece la profonda vicinanza politica alla comunità antillana: ebrei e neri condividevano il disprezzo da parte della borghesia bianca francese.
Le Procès Goldman si inscrive in una lunga tradizione di film in cui politica e visioni del mondo passano dalle aule di un tribunale, con esiti molto diversi ma la stessa straziante potenza.
Soprattutto, difficile non pensare a Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo che era uscito pochissimi anni prima, nel 1971: chissà che Pierre Goldman non l’avesse visto e non ripensasse, durante il proprio, alle parole di un Bartolomeo Vanzetti interpretato da Gian Maria Volonté. Probabilmente ci ha pensato Cèdric Kahn visto che l’attore protagonista che ha scelto, Arieh Worthalter, in queste vesti ricorda moltissimo proprio Volonté, per quanto diversi siano i due personaggi (storici e cinematografici) e per quanto diverso sia il finale (delle loro vite e dei due film).
“Non ho mai versato sangue umano, io. Ho combattuto per eliminare il delitto. Primo fra tutti: lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo (…). Sto soffrendo e pagando per colpe che effettivamente ho commesso. Sto soffrendo e pagando perché sono anarchico. Perché sono italiano. Ma io sono così convinto di essere nel giusto che se voi poteste ammazzarmi due volte e io potessi rinascere rivivrei per fare esattamente le stesse cose”. Sono le parole di Vanzetti, e Goldman sembra fargli eco, affermandosi colpevole soprattutto di essere militante, comunista, ebreo.
Molto più polemico e selvatico nel prendere la parola, rettificare, precisare, dichiarandosi innocente, “ontologicamente” innocente, di quei due omicidi, che andrebbero contro tutti i suoi principi, e annuendo con fierezza davanti a tutte le altre accuse. Goldman assume la responsabilità delle altre rapine, accetta il carcere con orgoglio, rivendica il suo essere rivoluzionario nell’animo, chiede perdono soltanto al padre, per non essere stato alla sua altezza. E intanto attraverso le sue parole ma soprattutto quelle dei magistrati e dei testimoni (che lo riconoscono con sicumera e non fanno però che contraddirsi) si delinea con forza una società francese razzista, antisemita, ipocrita. Arieh Worthalter dà corpo a un personaggio leggendario che rende insieme vivo, potente e archetipico mentre Cédric Kahn riesce a far passare un’intera epoca dall’aula angusta di un tribunale.
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