Prendiamola da lontano: in Cina, nell’entroterra di Shanghai, c’è una città che si chiama Zhili ed è nota, nelle poetiche definizioni che i cinesi affibbiano alla propria geografia, come “la città dei vestiti per bambini”. Zhili, per altro, sorge a pochi chilometri da Huzhou, una delle capitali cinesi della seta. Zona di industrie tessili e manifatturiere, insomma, di un genere che non conosce crisi. I bambini, si sa, hanno quella loro strana abitudine: crescono, e quindi hanno bisogno di vestiti sempre nuovi (per poi magari passarli ai fratelli minori). In questo regno del “made in China”, che viene valutato in un volume d’affari da 47 miliardi di dollari l’anno, arriva un giorno Wang Bing.
È, costui, un grande cineasta. Un documentarista senza fette di salame sugli occhi. I suoi film, spesso di durata fluviale, vanno a intrufolarsi in “nicchie” della vita cinese lontani da ogni ufficialità, e quindi incontrano problemi di censura di ogni tipo. Un suo film sui campi di lavoro nella Cina maoista, I dannati di Jiabiangou, fu un grande evento alla Mostra di Venezia del 2010: ma dovettero programmarlo come “film sorpresa”, altrimenti Pechino l’avrebbe bloccato. Dal 2014 al 2019 Wang ha frequentato regolarmente Zhili documentando la vita e il lavoro degli operai che cuciono e realizzano i suddetti abiti per bambini. Ne aveva già ricavato un film nel 2016, intitolato Bitter Money, “denaro amaro”. E ora ha portato a Cannes, in concorso, un film di tre ore e mezza intitolato semplicemente Gioventù. Fra poco capiremo perché.
Atelier fetenti e palazzi dormitorio
Non è certo la prima volta che un documentario passa in concorso a Cannes. In passato, film del reale hanno anche vinto la Palma d’oro: nel 1956 toccò a Il mondo del silenzio di Jacques-Yves Cousteau, leggendario documentario sottomarino co-diretto dal giovanissimo Louis Malle; nel 2004 è stato invece il turno di un documentario politico, Fahrenheit 9/11 di Michael Moore. Gioventù è all’altezza di simili modelli e contiene un approccio narrativo molto originale. Come si evince dal titolo, Wang Bing ha seguito per anni le giornate di lavoro di un gruppo di ragazzi, tutti intorno ai vent’anni: maschi e femmine che dalle campagne ormai spopolate si sono trasferiti a Zhili per lavorare nei cosiddetti atelier che fabbricano i suddetti vestiti.
Atelier è una parola che fa pensare a vecchie sartorie o a prestigiosi stilisti: ecco, scordatevela. Gli atelier di Gioventù sono degli stanzoni fetenti dove ogni giovane è seduto a una macchina per cucire, lavora a ritmi frenetici ed è pagato a cottimo. Finito il lavoro, i ragazzi non vanno a casa, perché non hanno una casa: nello stesso palazzone dove si trovano gli atelier ci sono dei dormitori, stile caserma, dove ciascuno di loro ha un letto e un armadietto dove riporre le sue cose.
I palazzi in questione sembrano la versione-Blade Runner delle vele di Scampia: stesse strutture di cemento, labirintiche, con un surplus: una quantità di monnezza, dovunque, che verrà smaltita forse solo quando a capo della Cina ci sarà il bis-bis-bisnipote di Xi Jinping. I capi sono ovviamente dipendenti del partito, il cui principale compito è imbrogliare i lavoratori e pagarli il meno possibile – ovviamente con il tono paternalistico e patriottico che sembra essere, in questo ambiente, l’unico ricordo del comunismo reale. Per il resto, Wang Bing ci porta dentro un capitalismo arcaico, in cui lo sfruttamento della forza lavoro è degno della Londra di Dickens – quella che nell’Ottocento ispirò a Marx ed Engels i loro immortali scritti.
Amori, scherzi e speranze secondo Wang Bing
Eppure… eppure, nonostante tutto ciò, Gioventù è un film allegro. Perché la bravura di Wang sta proprio nel pedinare i suoi protagonisti anche nei momenti extra-lavoro, e siccome sono ragazze e ragazzi di vent’anni, c’è tanta allegria, c’è voglia di vivere, ci sono amori, risate, scherzi, divertimento. Sognano di sposarsi, di avere figli. E si muovono dentro le contraddizioni del post-comunismo cinese di oggi. Sono pagati poco, vivono in condizioni infami, ma siccome sono pur sempre lavoratori del tessile hanno vestiti belli, di marca (cinese); e hanno tutti, ma proprio tutti, uno smartphone che usano come lo usano i loro coetanei italiani. Gioventù è quindi un lavoro felicemente contraddittorio: comunica una sfrenata gioia di vivere che entra in conflitto con un potere politico ed economico che nega a priori ogni tipo di felicità.
Visto a Cannes in una versione di tre ore e mezza, Gioventù avrà una versione finale di 9 ore. Non si parla, ovviamente, di andarlo a vedere al cinema (ammesso che mai ci arrivi, in Italia). Si parla di un lavoro che, auspicabilmente, diventerà visibile su qualche piattaforma – e vi diciamo anche quale: è co-prodotto da Arte, quindi prima o poi lo incontrerete lì. Degustato a puntate, come una serie di post-fantascienza apocalittica, potrebbe essere una delle esperienze visive e politiche più forti dei prossimi anni. Tenetelo d’occhio. E segnatevi questo nome: Wang Bing. È un grande.
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