Day of the Fight di Jack Huston è uno di quei gioielli che i festival ti lanciano nella seconda metà del loro svolgimento e nelle sezioni collaterali, come genere di conforto e sopravvivenza. Bianco e nero, narrazione classica, attori scelti e diretti con maestria, una linearità che non è mai superficialità ma il saper fare un grande classico anche al proprio esordio. D’altronde non si è i nipoti di John Huston a caso, il DNA non mente e in Orizzonti Extra (sezione che, va detto, non ha sbagliato un colpo) quest’opera commuove, entusiasma, intrattiene. A piangere, va detto, sono soprattutto gli uomini in sala, con goffi tentativi di nasconderlo. Ne abbiamo visti un paio, durante il combattimento finale, sussurrare “attento” al protagonista, altri schivare o mimare i colpi.
Day of the Fight è allo stesso tempo un bellissimo film di boxe e una destrutturazione di un genere longevo e rifugio – difficile sbagliare davvero un lungometraggio sul pugilato -, attraverso lo sguardo al momento cruciale, le ore prima del match. Quelle in cui Rocky andava da Adriana oppure correva per tutta la città facendosi inseguire pure dalle nonne che facevano la spesa. Ma Michael Pitt è un uomo sconfitto dalla vita, un ex campione del mondo che ha nel cuore un fardello troppo pesante. E, forse, anche altrove. C’è qualcosa di triste, solitario y final nello sguardo dolce e dolente di Pitt, per cui da subito temiamo che quel giorno prima del grande match del riscatto al Madison Square Garden, possa essere l’ultimo. Che la sua rinascita possa essere anche il canto del cigno.
Mikey è un antieroe che è amato dal suo quartiere, a cui tutti sembrano voler dare un’altra possibilità. Ma glielo leggi addosso che lui pensa di non meritarla e per questo vuole prendersela con i denti. Il suo riscatto è il risarcimento per chi ha creduto, rimanendone ferito, in lui. E un gesto estremo di ringraziamento.
Difficile farvi capire quanto sia bello e doloroso questo protagonista, quanto poco importa come finirà il match. Mikey combatte nelle ore che passa nelle sue strade, con i suoi affetti e fantasmi. E lì, rischiando varie volte il ko, vince. Ai punti, tumefatto nell’anima. Day of the fight è una sceneggiatura da manuale, una regia essenziale e generosa che non ha paura degli illustri precedenti anche familiari (d’altronde parliamo di uno che ha interpretato Giuda come il nonno in Ben-Hur), attori che pennellano interpretazioni brevi e laceranti (la canzone cantata da Nicolette Robinson, gli occhi di Joe Pesci, i gesti di Steve Buscemi, le parole e il corpo di Ron Perlman). Questo film è l’elogio poetico, tenero, definitivo, potente, come un gancio sinistro all’underdog. A partire dal suo mattatore, un Michael Pitt che dopo gli inizi scintillanti (come Mikey) è crollato e ora è di nuovo in piedi, grazie al suo talento.
Ne abbiamo parlato, di quest’opera prima, con il regista Jack Huston, salvato dallo sciopero in quanto attore inglese (lo era la mamma, il papà, figlio del grande regista John, era statunitense).
Come è nato Day of the Fight?
Day of the Fight è un cortometraggio documentario su Walter Cartier, allora campione dei pesi medi. Stanley Kubrick ne era produttore e regista. Lungo 20 minuti e con semplicità e linearità segue il pugile, nel pieno della sua carriera, nella preparazione all’incontro, nel giorno stesso in cui si svolge, dalla prima messa del mattino fino alle 20 al Laurel Garden di Newark dove avrebbe combattuto due ore dopo. Dopo averlo visto, mi risuonava in testa continuamente la voce da cinegiornale, il racconto di quel giorno dilatato, importante, eppure ordinario. Ho pensato che fosse un ottimo punto di partenza per un lungometraggio narrativo, ma immaginandolo come se potesse essere l’ultimo giorno di vita del pugile. O con la sensazione che possa esserlo. Come se quelle ore fossero l’inevitabile epilogo a cui la vita lo aveva portato.
Una bella scommessa. Quando ha capito che valeva la pena farne la sua prima prova da regista?
Stavo girando la serie Boardwalk Empire con Mike Pitt (Jack nella serie era Richard Harrow) e lui era solito prendere a pugni un sacco di sabbia prima di ogni ripresa (cinematografica, non pugilistica) e io lo guardavo, sapevo che frequentava una palestra di boxe ed ero affascinato dall’eleganza dei suoi gesti e dall’amore e l’abnegazione per quello sport che da essi traspariva. E dentro di me ormai sapevo di voler esordire con un film sulla boxe: quando ho visto il corto di Kubrick, ho subito pensato a Michael. La voce fuori campo mi continuava a ronzare nelle orecchie e poi ne ho sentita un’altra che mi ha detto “e se il protagonista si fosse fatto otto anni di prigione per aver fatto qualcosa di orrendo ma avesse una seconda possibilità, il suo grande giorno al culmine di un viaggio di redenzione che può farlo venire a patti con il suo passato?”.
Da questo pensiero nasce il bianco e nero epico e intimistico del film?
Volevo che presente e passato si affrontassero sul ring. E anche un futuro già rimpianto prima di viverlo, perché coscienti della possibilità di non viverlo. Volevo che entrambi questi piani temporali fossero poetici, che potessero spingere il protagonista e gli spettatori a capire fino a che punto sei disposto a spingerti per le persone che ti amano. Perché alla fine è quella la vera battaglia che lui combatte, più importante del match serale. Perdono, redenzione, penitenza, sacrificio. Volevo raccontare il Purgatorio di un uomo buono che ha fatto degli errori, che lo ha capito, che sa che potrebbe essere un uomo migliore. Anche solo per poche ore.
Quali riferimenti cinematografici ha avuto girando il film?
Le references sono talmente tante. I film di mio nonno, ovviamente, che non era uno qualunque. Era John Huston. Fronte del porto, in cui Marlon Brando è un ex pugile e che era tra i suoi film preferiti. Come Gallipoli, sulla perdita d’innocenza. Il cinema era una delle poche cose che univa me e mio padre, per il resto era un rapporto distante il nostro, e i film sulla boxe adoravamo vederli insieme. Così come quelli di mio nonno. Il mio desiderio di recitare e fare film nasce guardando quei lungometraggi, più li vedevo più volevo far parte di quel mondo magico. Inoltre penso che poi questo sport e il racconto cinematografico legato ad esso abbiano una capacità di giocare sul campo della tragedia come pochi altri. E c’è una bellezza nella tragedia impareggiabile, già i greci lo avevano capito e l’ho compreso fin dai primi libri che mi venivano letti da bambino come Il gigante egoista o Il principe felice.
Confessi, quante volte ha rivisto negli ultimi mesi Fat City di suo nonn0, uno dei film sulla boxe più belli della storia del cinema?
Non so dirglielo, non lo vedevo da tantissimo quando ho pensato di fare questo film, ma di sicuro ce lo avevo sotto pelle. John Huston non era solo uno dei più grandi registi della storia del cinema, è anche stato il campione di boxe dei dilettanti della Costa Occidentale. Un pugile vero, non improvvisato o amatoriale. Adoravo i suoi racconti da ring così come Fat City che da piccolo vedevo e rivedevo. Ecco, credo che la storia di Mike Flannigan, il mio protagonista, mi abbia fatto rivalutare il tornare al passato, mi ha fatto capire che è una qualità. Se ci fai i conti veramente, se saldi i tuoi debiti con lui, con le persone che ami. Se lo fai diventare un qualcosa che ti rende un uomo migliore.
Il suo esordio andrebbe studiato nelle università di cinema per il casting, lo sa?
Questo film, dalla prima all’ultima parola, l’ho scritto pensando a Micheal Pitt, non voglio mentire. Non avrei fatto il film senza di lui. Nicolette è un incontro magico, bellissimo, e ho capito che doveva essere la moglie. Steve Buscemi, era evidente, ovvio, dopo avere scritto il film, che dovesse essere lui. Ron Perlman, che regalo e che sorpresa è stato. Anatol Yusef è un gigante. Certi talenti non è un merito notarli, sono così evidenti, ma mi riconosco un merito: non sono stato impaziente, ho preferito aspettare chi non poteva girare subito, ma i personaggi avevano caratteristiche troppo specifiche per potersi accontentare di seconde scelte. Mio nonno diceva che il 90% della realizzazione di un film è il casting, perché se trovi il cast giusto metti in moto una creatività che ti porta fiducia, collaborazione, talento sul set. Fiducia, perché ti fidi di loro e ti aprono porte che neanche immagini, possibilità impreviste. E vale anche il contrario. Per me questo film è come una danza e noi abbiamo ballato insieme. E quanto è stato bello farlo. Sai quando ho capito che sarebbe stato un film speciale? Quando li ho guardati e ho sentito che loro amavano il film quanto lo amavo io.
Michael ha accettato subito? È un ruolo molto diverso da quelli precedenti…
Lui è stato incredibile. Non solo ha subito detto di sì, ma da quando ha deciso di fare il film a quando abbiamo iniziato sono passati due anni. Un anno dalla fine della sceneggiatura. Solo per caso ho scoperto che Michael si è allenato tutti i giorni a partire dal giorno del suo sì. Tutti. Sui set oppure in palestra. E’ arrivato al momento delle riprese in uno stato mentale e fisico perfetto. Lui non ha interpretato un pugile, lui è un pugile.
La sua, vostra forza, è aver dato vita a un eroe che dà al contempo un’idea di forza e estrema vulnerabilità.
Michael Pitt è esattamente così, ha questa qualità infantile, c’è qualcosa di molto forte in lui, di vulnerabile e delicato. E mi piaceva l’idea che quest’uomo abbia fatto qualcosa che considera imperdonabile e che non ha superato, che lo ha piegato a un passo dall’essere spezzato. Lui, nel bene e nel male, è un prodotto del suo ambiente e della sua educazione. Ed è poetico che guardandogli dentro scopri che non è il perdente che lui crede di essere. Lo era quando era in cima il mondo, mentre adesso che è nella polvere ha riconquistato se stesso. E poi tutti possiamo immedesimarci negli underdog, perché dentro di lui e nella sua ansia di riscatto e redenzione si nasconde la speranza. Il ragazzo che tutti hanno scartato, che ha contro tutto e tutti, il giovane uomo che attraversa ogni avversità, alla fine può farcela. Avere una seconda e ultima possibilità. E quanto è bello quell’aspirazione a essere migliori, al riscatto? C’è tutto in questo giorno terribile e meraviglioso: fede, solidarietà, spiritualità, speranza, bene e male, la filosofia della vita, il destino, ciò che siamo.
Uno dei segreti del film è la musica. Come ha lavorato sulla colonna sonora? Quando Nicolette Robinson suona e canta i Creedence Clearwater Revival la sala prima è andata in apnea, poi ha iniziato a singhiozzare…
Davvero? Così mi emoziono io però! La musica è un altro personaggio del film. Lui sta sempre con le cuffie, sua moglie e suo padre cantavano: lei, Nicolette Robinson, straordinaria, si produce appunto in una versione di Have You Ever Seen the Rain? voce e pianoforte che anche sul set ci ha emozionato tutti. Ho lavorato alla colonna sonora con mio cognato Ben McDermott e questo è la sua prima esperienza cinematografica. Abbiamo giocato costantemente con la musica, il suono e il modo in cui commenta la città e le immagini, credo che questo sia un elemento fondante del film, che è sempre molto lirico e poetico ed è un combattimento, ma anche una danza come già dicevo prima, un balletto. E poi ci sono delle perle: ha presente quando va dal padre e mette su il suo disco? In realtà è un disco inciso da Joe Pesci! Ecco com’è andata: dopo la prima di The Irishman, a New York, l’ho incontrato. Il suo manager è uno dei miei produttori. E gli ho proposto questo padre affetto da demenza senile che anche così fa paura a Mike. L’idea della musica arriva quando sento Joe cantare e ricordo mia nonna, affetta dalla stessa malattia, che tornava in sé solo ascoltando canzoni. Improvvisamente la sua memoria si riempiva delle parole dei testi dei pezzi che passavano sul giradischi. Quando la dico a Joe, lui mi dice che c’è un disco in cui lui canta.
Come ha fatto a convincerlo? Scorsese dice che ha sudato le sette camicie per fargli fare The Irishman.
Convincere Joe a fare qualcosa è impossibile, quindi mi posso vantare di quella che è stata la più grande impresa della mia vita: far partecipare Joe Pesci al mio esordio. In un ruolo affatto facile, in cui deve rimanere fermo, fare un gesto ossessivo e raccontare allo spettatore solo con gli occhi e con qualche impercettibile movimento l’uomo che era. Si è preso la sceneggiatura, l’ha letta, l’ha amata molto e ha finito pure per fare il produttore esecutivo del film. Non credo che abbia mai interpretato un ruolo così vulnerabile. E io sono ancora incredulo di averlo avuto con me.
Veniamo al combattimento finale. Chi ha girato film sulla boxe ha sempre detto che sono le scene più difficili per il regista. È vero?
Abbiamo avuto un giorno e mezzo per farlo. Abbiamo girato per 20 giorni e ho avuto un giorno e mezzo per fare l’intero combattimento. Ho fatto più più riprese possibili ed è qui che entra in gioco il montaggio. Non avevamo molti soldi e io ero molto esigente: sono uno spettatore di pugilato dal vivo, oltre che spettatore appassionato di film del genere. Ho pensato di provare a rendere autentico il modo in cui si svolge, il tira e molla, i colpi, le proteste, i colpi alle corde, le irregolarità. Ma anche la solidarietà tra avversari. Questo non è un film sulla boxe, ma su un pugile: l’incontro è solo una deliziosa aggiunta e quindi doveva valere la pena farlo.
Per girare un film del genere e con attori di questo calibro, bisogna essere molto solidi e avere molta fiducia in se stessi…
La mia fortuna è aver lavorato con molti dei miei eroi: Martin Scorsese, Ridley Scott, Bille August, Al Pacino e pochi altri. Mi hanno insegnato una cosa: gira solo una storia di cui sei sicuro e ama ciò che fai, appassionati a ciò che racconti: nessuno di loro ha mai fatto il cinema come un lavoro, ma come una necessità. Io così ho imparato ad amare tutto: le immagini, la sceneggiatura, gli attori, le macchine, il set. Come loro, ero un bambino nel suo parco giochi preferito. Tutto questo ti porta ad avere una grande fiducia in te stesso che comunichi anche agli altri.
Il film racconta il dolore, la colpa, le ferite che non si rimarginano. Eppure ha qualcosa di gioioso. E finisce con un sorriso, non a caso.
Non sono mai stato così felice in vita mia e credo che questa fiducia e desiderio di fare una cosa bella li sentissero tutti. Una forza positiva che ha contaminato tutta la troupe. E poi hanno visto che io volevo una storia semplice, che non giravo per la mia vanità d’autore, ma perché amavo ciò che raccontavo. Questo è un film sull’amore, prima che su qualsiasi altra cosa. Sul perché anche quando è troppo tardi, devi dire a chi ami cosa provi per lui, o lei. La vita è già tanto complicata per rendere troppo complesso anche il cinema!
Lei questo film lo ha voluto con tutto se stesso, anche quando sembrava impossibile farlo. Cosa l’ha spinta?
Non mi vergognavo di fare tutte le telefonate a mani unite e in ginocchio implorando la gente di venire a far parte del progetto, perché è questo che si fa nel cinema indipendente e credo che sia molto importante credere così tanto nella propria storia da fare di tutto per realizzarla al meglio. Non è facile fare un film in bianco e nero di questi tempi, con Michael che non è una grande star, non ancora. Ma sono riuscito a condividere con tutti il mio sogno, a renderlo anche loro. E ora che sono qui a Venezia voglio celebrarlo e un po’ mi fa male che non ci siano gli attori, anche se da interprete io stesso, condivido ogni punto della nostra lotta. Ma Day of the Fight merita di essere celebrato anche solo per l’impegno enorme, l’abnegazione che tutti hanno avuto per il progetto. E a tutti loro voglio dire quanto sono grato del lavoro fatto insieme e di ogni giorno in cui ho avuto l’opportunità di stare su quel set con ognuno di quei grandi artisti e prego Dio che altri ragazzi siano in grado di farlo in futuro.
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