Matteo Garrone ama le sfide, le unioni impossibili, le alchimie segrete e rivelatrici. Da Primo amore a Gomorra, da Estate romana a Il racconto dei racconti, ha sempre lavorato così, accostando i mondi e i registri più diversi e talvolta stridenti, con esiti spesso straordinari ma anche sconcertanti. Per alcuni addirittura disturbanti. Io capitano susciterà polemiche e attacchi perché scende per così dire con le armi della fiaba su un terreno sensibilissimo, quello dei migranti, con la loro scia di sangue e di soprusi, ignorati, tollerati o usati dalla politica, in Italia e nel resto del mondo. Dibattito interminabile e naturalmente incandescente nel quale non ci avventureremo.
Qui a Venezia sempre in Concorso si è visto un film coraggiosissimo in materia realizzato dalla polacca Agnieszka Holland in semiclandestinità, The Green Border, che racconta gli orrori della frontiera tra Polonia e Bielorussia con il linguaggio della cronaca più brutale, sia pure trasfigurata dal bianco e nero. Io capitano fa tutto l’opposto.
Parte con una scena a Dakar che è un trionfo di colori addirittura fluorescenti. Parte da un gruppo di ragazzine che si scambiano smalti e parrucche. Insomma parte dal sogno, dal trucco, dall’immaginazione. Non generalizza, non dice in nessun momento che a emigrare sono adolescenti desiderosi di mettersi alla prova che in fondo hanno una vita dignitosa (rispetto a tanti altri paesi africani, il Senegal è quasi un’isola felice). Dice solo che – come tutto – anche il fenomeno della migrazione genera mito, e che questo mito fa parte della realtà. Anzi è proprio il mito, ciò che credono di sapere, a spingere i giovani Seydou e Moussa a partire per la loro personale Odissea. Anche se la chiave per Io capitano è un altra: ed è ancora una volta Pinocchio.
Già, anche Seydou e Moussa (che trasportano grossi sacchi di cemento per campare, il peso della realtà nel film c’è eccome) hanno nascosto un mucchietto di quattrini per il viaggio. Anche loro incontrano molti gatti e volpi sul loro cammino. E partono di nascosto da un genitore, qui una madre preoccupatissima, che il figlio rivedrà solo con l’ausilio della magia in una scena da Mille e una notte (quelle di Pasolini però). Perché il mondo magico fa parte fin dal principio del viaggio di Seydou e Moussa, anche se è una magia che poco a poco si spegne facendo i conti con il volto sempre più terribile della realtà (e questo è uno dei problemi irrisolti dal film). Ed è con gli occhi spalancati su questa dimensione “magica” appunto, ormai assente dalla nostra cultura, che Garrone guarda a Dakar.
Che riprenda le danze sfrenate di donne e bambine per strada (scena peraltro filmata dal vero), che porti Seydou e Moussa dall’indovino, o a consultare un migrante di ritorno, o a chiedere il permesso agli antenati in un vecchio cimitero sorvolato da un nugolo infernale di uccelli, è questa ricchezza quasi sempre ignorata dalle nostre cronache che il regista evoca. Con i mezzi del suo cinema, certo, unendo il proprio sguardo a quello dei suoi protagonisti.
È questo anche a fare scandalo, oggi che si spara con tanta facilità l’accusa di “appropriazione culturale” contro chiunque voglia guardare oltre il cortile di casa. Eppure le scene più belle del film, le più disperate e toccanti, quelle che sembrano aprirci a una consapevolezza diversa, non fanno riferimento alla cronaca ma a una speranza che sconfina nel prodigioso e nel soprannaturale. È lo spiritello che riporta Seydou dalla madre, è la donna che anziché cadere stremata nel deserto vola come un pallone. È – ma questa è un’altra intuizione sviluppata a metà, la realtà è sempre in agguato – quella fontana favolosa costruita con le loro mani dai due migranti nel mezzo del deserto libico.
Di fronte a questa forza, alimentata anche da racconti e testimonianze dirette (numerosi sono i consulenti africani alla sceneggiatura firmata da Garrone con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri), suonano invece più prevedibili e meno per così dire produttivi gli inevitabili riferimenti alla cronaca vera. La spietatezza di intermediari e parassiti, le torture e la compravendita di schiavi nei centri di detenzione libici, la follia di quel barcone affidato a un 15enne senza esperienza. È qui, semmai, che la coraggiosa idea di Garrone mostra un po’ il fianco.
Anni fa un regista spagnolo, Diego Quemada-Diez, percorse una strada analoga per realizzare il memorabile La gabbia dorata, l’odissea di due ragazzi e una ragazza fra il Guatemala e gli Usa, seguendo l’unico sopravvissuto fin oltre la frontiera. Io capitano lascia gli orrori al di là del Mediterraneo. Ma l’ottimismo della volontà è un sogno tutto europeo. E in Europa di magia ne è rimasta poca.
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