Io, noi e Gaber. Per parlare di questo film, che dal 6 all’8 novembre sarà in sala, si deve necessariamente parlare del titolo, partire dal titolo che, con una semplicità disarmante, ci dice che non si può esulare da ognuno di noi per parlare di lui. Perché ci ha ingaggiato, sfidato, provocato sulle nostre fragilità, mentre sulle barricate ci si annullava per un’idea di mondo, lui ci diceva che il mondo eravamo noi e per cambiarlo, dovevamo partire da lì. Che fossimo gabbiani ipotetici senza più neanche l’intenzione di volare, appartenenti a generazioni perdenti, che non ci sentissimo italiani (ma per fortuna e purtroppo lo siamo), che quando è moda è moda non ci sottraiamo mai. Perché se la libertà è partecipazione, figuriamoci un documentario su Giorgio Gaber.
Non possiamo, non vogliamo isolarci, diventare spettatori passivi della carriera di un uomo che ha cambiato il nostro modo di vedere le cose e Riccardo Milani, probabilmente il regista più a contatto con l’attuale tessuto sociale, morale, psicologico (e un po’ psicotico) del paese, l’ha capito subito.
O l’ha sempre saputo, chissà.
Io, noi e Gaber, la recensione
Il regista, che viene da un biennio fertile particolare (due bellissimi docubiopic, su due italiani atipici, unici e mitici come Gigi Riva e Giorgio Gaber, in mezzo il bello e particolare Grazie Ragazzi), aveva di fronte un’impresa titanica. Ma matura, se è vero che Jannacci, con Verdelli, ha chiamato da Venezia e Gaber, da Roma (la Festa del Cinema 2023 lo ha messo tra gli Special Screenings) con Milani, ha risposto.
Io, noi e Gaber
Cast: Claudio Bisio, Francesco Centorame, Ombretta Colli, Ivano Fossati, Dalia Gaberscik, Ricky Gianco, Gino (Vignali) & Michele (Mozzati), Paolo Jannacci, Massimiliano Pani, Lorenzo Cherubini Jovanotti, Mogol, Vincenzo Mollica, Gianni Morandi, Paolo Del Bon, Gianfranco Aiolfi, Massimo Bernardini, Pier Luigi Bersani, Mario Capanna, Fabio Fazio, Guido Harari, Lorenzo Luporini, Roberto Luporini, Sandro Luporini, Mercedes Martini, Michele Serra
Regista: Riccardo Milani
Sceneggiatori: Riccardo Milani
Durata: 135 minuti
Matura perché quegli artisti così fuori scala e fuori schema, capaci di smarcarsi dalle categorie dell’essere dei loro anni, di fuggire il successo facile – che pure raggiunsero – per fare ciò che amavano, senza censure (Gaber l’ha pure cantato in Rai, per chi se n’è accorto) e cedere a seduzioni di fama o mercato, vanno ricordati in una società che sta vivendo un processo di massificazione conformista di rara vastità. Quel processo da cui GG ci ha messo in guardia decenni fa.
Matura anche per raccontare Milano che è stato il giardino di una contestazione che poneva l’io contro Dio, che fosse denaro, politico o l’uno e trino, la città che ha saputo cullare questi talenti, crescerli, farli parlare e suonare tra loro. Difficile, quasi impossibile raccontare tutto questo, farlo passare per le innumerevoli immagini di repertorio, per le tante voci accorse a raccontarlo. E anche per quelle che non ci sono: Ombretta Colli dice una sola parola, Adriano Celentano non c’è solo per citarne un paio.
È un ritratto laterale, per certi versi, e frontalissimo per altri. Milani sembra seguire tante, in alcuni momenti troppe piste narrative e contenutistiche, poi tira le redini e le fila dei discorsi, delle note e delle immagini e così questa Gabereide diventa uno sguardo lucido e conseguenziale, a volte razionalmente a volte emozionalmente, su un genio, per certi versi il più grande intellettuale della sua generazione e forse del Novecento italiano, che con Luporini ha inchiodato gli anni di piombo ma anche quelli di paillettes alle proprie responsabilità, che ha vissuto, raccontato, mostrato con fierezza timida, la sua, le contraddizioni di tutti noi, le sue comprese.
Per raccontare quell’uomo che da solo riempiva, con quel corpo magrissimo, un palco intero, il teatro tutto, del suo carisma, della sua passione vibrante, delle sue parole, delle sue canzoni, delle sue urla, c’è voluto un coro sterminato. La passione bambina di Vincenzo Mollica – e sì, l’amore per l’arte e per il raccontarla, o permettere che qualcuno lo faccia, è ereditario: la coproduttrice è sua figlia Caterina -; la timidezza appassionata e reverenziale di Lorenzo Cherubini; il rispetto innamorato di Fazio; Bersani (Pier Luigi, non Samuele) che ancora ama dibattere di e con lui. Perché a Gaber una cosa sarebbe piaciuta tanto di questo documentario: da Mario Capanna a Michele Serra ancora lo amano, ma ancora lo dibattono e discutono. Ancora sa spargere il sale sulle loro ferite, ancora si oppongono a lui. Perché è così vivo ciò che ha pensato, creato e seminato che ancora adesso li fa accapigliare. A volte anche con se stessi.
La mia generazione ha perso? Bersani, nello stile che gli fece dire quand’era candidato premier “abbiamo non vinto”, dice che non è vero, che la sua generazione “poteva vincere meglio”. E altri vedono in quella canzone e in Verso il terzo millennio il testamento della sua passione, l’apertura, nel suo pessimismo, di un varco attraverso cui i figli devono provare ad arrivare dove i padri hanno deluso per prima cosa se stessi. E che scelta meravigliosa, Io non mi sento italiano sui titoli di coda. Ah, nelle scuole, date la lista dei pezzi della colonna sonora di questi film come compiti estivi. Ascoltarle, tutte. Fatelo.
Io, noi e Gaber ci mostra il coraggio, il dubbio, l’impeto di un artista che, in un’intuizione leggera e puntuale che viene sussurrata a un certo punto, è stato più pasoliniano di chiunque altro, in alcune nostalgie e intemerate, così come nella lucidità e profondità antiitaliana (eccone un altro). Ci dice che è ipocrita cercare la misura, se hai la possibilità di lacerare coscienze, cuori e ragione, alimentando tutte e tre, che la verità va cercata ovunque, non necessariamente per sottrazione, che scrivere, cantare, girare, dipingere per piacere a tutti o per seguire delle regole di buona creanza, è grottesco, in un mondo del genere. Io, diceva Giorgio Gaber, e la prima persona non la puoi eludere ora che la frontiera politica e morale dell’esistenza, è ogni singolo essere umano.
Devi avere il coraggio di sbagliare, non la presunzione di essere infallibile. Anzi, devi proprio ostinatamente sbagliare. Anche solo perché la metrica lo esige.
Le scene imperdibili del documentario
Il 6, 7 e 8 novembre 2023, in un’uscita evento grazie a Lucky Red Io, noi e Gaber – prodotto da Atomic con Rai Documentari e Luce Cinecittà – potrete vederlo tutti al cinema, sul grande schermo. E al di là dei sommovimenti intellettuali ed emotivi che vi susciterà, troverete documenti imperdibili della nostra memoria collettiva. Ho visto un re, cantata in Rai, nel programma Rockpolitik da Adriano Celentano (che lo conduceva) e da destra a sinistra Antonio Albanese, Enzo Jannacci in piedi, il Molleggiato, Dario Fo e Giorgio Gaber. Una roba alla Gianni Minà. Solo un caso ha voluto che solo uno di loro abbia vinto il Nobel.
E poi le performance televisive con Mina, così vicini e così diversi, Ivano Fossati che per lei ha rotto il suo esilio musicale e per lui rompe quello comunicativo, i calci volanti tra lui e Enzo Jannacci, lui che urla “la macchia nera è lo stato” in Io se fossi Dio, Destra Sinistra ispiratagli da Gino & Michele, il monologo meraviglioso che è Qualcuno era comunista, che racconta dell’Italia, dei suoi sogni, di quanto sia stata tradita e fedifraga più d’ogni altra cosa.
Riccardo Milani è riuscito in un piccolo grande miracolo, a mettere in 135 minuti tutto, anche se non c’erano tutti. E forse per questo, perché chi gli era vicino ha mantenuto la giusta distanza, un pudore sincero e attento, per permettere a noi di sentirlo ancora qui. Non ti perdoneremo mai, Giorgio, di averci abbandonato, 63enne, vent’anni fa. Come non perdoneremo Fabrizio, De André.
È successo di tutto nel frattempo, te che pensavi che con 11 settembre e Genova di peggio non si sarebbe potuto vedere. E invece. Invece, signor G, ci sarebbero servite tanto le tue parole, quell’ironia che la rabbia spesso trasformava in sarcasmo, o così lo definivamo noi perché la verità ci facesse meno paura.
Avremmo avuto bisogno del tuo scuoterci, del costringerci a pensare, di metterci lì, su quel palco che diveniva terremoto per tutti, nudi di fronte alle tue riflessioni, i tuoi pensieri, che erano un flusso con cui ti confrontavi anche tu, ogni volta. Per questo forse Bisio ti legge, ti interpreta, benissimo: perché ancora oggi possiamo trovare rifugio in te.
Invece siamo rimasti qui a pensare di aver vinto, come dice Vincenzo Mollica (che meraviglioso giornalista, cronista dell’arte e della bellezza rimasto intatto nel suo entusiasmo, contagiato grazie alla sua sensibilità da tutti i grandi che ha incontrato: solo l’Italia e gli italiani potevano non capirlo e criticarlo) per aver avuto la fortuna di vederti, ascoltarti, a volte, non sempre capirti. Perché lo dice Lorenzo Cherubini, come a dire un’ovvietà “penso che Gaber cambi la vita a chiunque lo ascolti, no?”. Sì.
Grazie, quindi, Giorgio, anche per Io, noi e Gaber, anche.
Noi, se fossimo Giorgio Gaber.
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