Occhiali scuri e cappello sono lo scudo da cui l’artista francese JR non si separa mai, per non svelare del tutto la sua identità. Li indossa anche all’incontro con il pubblico dopo la proiezione di Tehachapi, documentario presentato il 23 ottobre alla Festa del Cinema di Roma 2023, nella sezione Freestyle. Perché, come spiega anche nel film, ancora parte della sua street art resta illegale, nonostante abbia raggiunto la fama mondiale e le copertine del Times.
Quello che fa non è altro “che carta e colla”, afferma, ma in realtà è una dichiarazione sull’arte come strumento per “spostare l’ago della bilancia”, vedere un reale cambiamento nel mondo. È anche per questo che gran parte delle sue installazioni fotografiche comprende volti umani – spesso anche decine, centinaia – che compaiono improvvisamente fra i monumenti e le architetture urbane in tutto il mondo, dal Palazzo Farnese di Roma alle Piramidi di Giza. Come dei giganti in bianco e nero a cui è impossibile non prestare attenzione. “Finché non c’è qualcuno che guarda, non ci può essere trasformazione” afferma al pubblico. “La mia arte è fatta per rendere le persone visibili, raccontare le loro storie”.
Tehachapi, da carcere a opera d’arte
E così se fino all’ottobre 2019 Tehachapi era solo il nome di luogo isolato nel deserto californiano, ideale per un carcere di massima sicurezza, JR con il suo omonimo progetto (iniziato proprio nell’ottobre di quell’anno e non ancora finito) lo trasforma in qualcosa di più.
Lo trasforma nella ricerca di una risposta alle domande sulla forza dell’arte all’interno delle situazioni umane, anche le più estreme. E nella storia di circa cinquanta uomini tra detenuti e guardie carcerarie, che attraverso un progetto fotografico collettivo si ritrovano a lavorare spalla a spalla, insieme.
Un enorme collage di detenuti
Non è compito dell’arte quello di giudicare. Così JR entra nel carcere e la prima cosa che fa è stringere la mano a tutti i detenuti coinvolti nel progetto, senza ulteriori domande. È suo compito, ma non è invece sua intenzione, denunciare il sistema giudiziario statunitense, ma è chiaro che lo sguardo di un uomo europeo e francese non può che congelarsi di fronte alle condizioni in cui vivono quei detenuti nel deserto.
“Con Tehachapi ho voluto dare la possibilità di fare vedere all’esterno quanto erano cambiati gli uomini rinchiusi lì da 15 o anche 20 anni. Nessuno parla con loro. Non hanno nemmeno il permesso di guardare le guardie carcerarie negli occhi. Chi può sapere quanto hanno lavorato su loro stessi, che sono persone diverse, anche migliori, se non c’è nessuno in grado di ascoltarle? Devi vederlo. E una volta che l’hai visto non puoi più dimenticarlo”.
L’idea, perciò, è quella di scattare a ognuno un singolo ritratto dall’alto che, lavorato in post-produzione, diventa parte di un enorme collage di volti e corpi da incollare sul cemento del cortile. Colla e carta, di nuovo. E il passo successivo è riprenderli dall’alto con un drone, così che quell’immenso carcere nel deserto sembri almeno un po’ più piccolo in confronto alla gigantografia dei 48 uomini che “emergono dalla buca” del cortile. Tra una fase e l’altra, ci sono tutte le storie e le emozioni che quegli stessi uomini scelgono di raccontare a microfoni accesi.
Arte effimera, arte eterna
La particolarità del Cortile (nome dell’opera d’arte in sé, al di là del film), però, fin dall’inizio e più di tutte le altre opere di JR è stata la sua natura temporanea e transitoria, in contrasto con l’eternità (le sentenze di ergastolo) che i detenuti scontano dentro Tehachapi.
Le oltre 335 strisce di carta incollate a terra infatti, sono sparite dopo appena tre giorni. Strappate via dal vento o per decisione del carcere o sotto il peso dei passi, avanti e indietro, delle ore d’aria. “Come dice anche uno degli uomini che ho ripreso, tuttavia, l’importante è stato il processo”, il momento in cui i detenuti hanno iniziato a incollare per terra questi enormi ritratti e in quel gesto di cooperazione hanno ritrovato contatto umano. Si sono sentiti riconosciuti, di nuovo, come persone. E non è un’esagerazione, considerando che tra i partecipanti c’è anche chi ha vissuto per 14 anni in una vera e propria gabbia di isolamento.
“Quando ho capito cosa poteva fare l’arte per loro ho iniziato a riprendere ogni aspetto del processo, anche con il mio cellulare, che fortunatamente non mi hanno mai sequestrato all’entrata. Ho girato io le immagini verticali del film, oltre quelle del mio operatore. Spesso le ho anche pubblicate sui social. E non pensavo che questo progetto sarebbe continuato per quattro anni. Ma la gente ha iniziato a interagire con me e, attraverso me, anche con questi uomini”.
Una svastica sul viso
E con uno dei detenuti in particolare, Kevin, che ha subito attirato l’attenzione dei milioni di follower dell’artista francese, per i profondi e dolcissimi occhi azzurri in estremo contrasto con la svastica tatuata sul viso. “Quando realizzo un progetto so da dove parto ma non so dove andrò a finire. Kevin è diventato così il soggetto, il filo conduttore di questo film. Sia perché era il primo dei detenuti che avremmo visto uscire in libertà vigilata, sia perché la sua immagine ha generato molta discussione sui miei canali social. Le persone, pur turbate da quel tatuaggio, hanno iniziato a voler sapere di più su di lui”.
Rilasciato il 17 novembre 2021, Kevin è stato accompagnato e filmato da JR stesso al primo appuntamento per la rimozione della svastica, parte una mentalità da gang (le skinhead delle carceri) in cui non si riconosceva più. “Avevo però bisogno che lo spiegasse lui al pubblico”, ha affermato JR rispondendo a una domanda di The Hollywood Reporter Roma, “per questo gli ho dato più spazio e ho lasciato che lo dicesse a parole sue”.
Non tutto è stato “semplice come potrebbe sembrare” in video, ma per me “l’artista non è tale se non si dà la possibilità di fallire”. All’inizio ci sono stati dei momenti in cui “le guardie carcerarie hanno fatto di tutto per impedirci di andare avanti. Ci hanno fermato per un mese dicendo di aver trovato delle armi illecite. Sono entrate in sciopero tutte insieme pur di non farci entrare nell’area di maggior rischio”.
Il progetto, però, non solo è andato avanti anche durante gli anni del Covid, con una continua comunicazione fra l’artista e i detenuti e nuove installazioni pensate e riprese da JR. Ma ha iniziato a circolare nel mondo attraverso il documentario, tra i festival, tra la gente.
“E così quell’immagine che attacchi su un muro come possibilità di rivelare tutto quello che vuoi – o magari per far sparire un confine o il muro di un carcere – ti mostra che un’altra realtà è possibile”, conclude. “L’immagine esiste sempre, anche quando viene strappata via, anche quando è effimera come la mia. E se esiste, rimane nella testa” e cambia la percezione delle cose. Proprio come gli occhi blu di Kevin. E di tutti gli altri.
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