La morte è un problema dei vivi sembra un proverbio finlandese. E probabilmente lo è. Così come pure il sesso, perché La erección (l’erezione) che Toribio Bardelli, uomo infelice che ha vissuto nella menzogna di un amore traditore e di uno mai vissuto, cerca di procurarsi in ogni modo, invano, ricade su tutta la sua famiglia, tre figli alla disperata ricerca di ciò che non hanno. Come lui. A una manca la vista ma soprattutto chi sappia vederla, a un altro è stato trapiantato un cuore che sta sabotando, la terza vorrebbe solo un amore e forse essere all’altezza di ciò che la madre vedeva in lei.
In questa terza giornata della Festa del Cinema di Roma 2023, in concorso arriva il candidato all’Oscar per il Perù, La erección de Toribio Bardelli: un sofferente e rabbioso Gustavo Bueno cerca la mascolinità perduta, ma in realtà ha perso la voglia di vivere. Adrián Saba ha una buona idea di racconto, un po’ alla Tony Manero di Pablo Larrain vuole pedinare un uomo solo, rancoroso, all’inseguimento di un’egotica fisicità che riempia il vuoto che ha dentro. Il pene duro come la doccia che apre per ricordare la moglie fedifraga. Ed è qui che quest’opera, sopravvalutata, dà il meglio, nella caratterizzazione di personaggi già visti – soprattutto nel cinema sudamericano, questa è una coproduzione particolare, tra Perù e Brasile – mentre nel linguaggio cinematografico ripercorre, in modo anche grossolano, quello che abbiamo già visto, per decenni, da maestri con più talento e visione. Non c’è uno scarto nell’immagine e nell’immaginario, uno smarcamento dal curato squallore di location sciatte e vite derelitte di piccolo borghesi che si fondono come se la materia rispecchiasse le anime e viceversa, una trovata geniale ma ormai pluridecennale.
La cifra stilistica di un continente che però ormai è un pericoloso e stanco archetipo se, per dirla alla Guccini, non si sa bene come domarlo. L’alcolista Sylvester, la non vedente Sara, l’infelice e più orfana di tutti Luz hanno sprazzi di cupa e inconsapevole bellezza, ma troppo spesso sono pedine di una partita già giocata da altri, prima e meglio. E quello che ci rimane è un’opera che sembra fatta per farsi amare dai festival ma che alla fine inizia con una fellatio e un’erezione che non arriva e finisce con un peto. Una loffia, per la precisione. E a differenza dell’amplesso di interspecie di Polanski, in The Palace, almeno quella è una delle scene più riuscite. Detto questo, se questo lungometraggio vale una candidatura all’Oscar, diamone uno alla carriera, è ora, a Neri Parenti.
Cooperazione particolare è anche quella alla base de La morte è un problema dei vivi, di Teemu Nikki, tra Finlandia e Italia. Qui siamo dalle parti dell’archetipo, sì, ma rivitalizzato e portato altrove, un Kaurismaki moderno – anche se più di Aki chi lo è – tra rock finlandese anni ’80, jazz e un’agenzia di pompe funebri improbabile, passando per il gioco d’azzardo per arrivare a quello in cui ti giochi tutto, sfiorando Winding Refn.
La morte è un problema dei vivi
Cast: Pekka Strang, Jari Virman, Elina Knihtila, Hannamaija Nikander, Pihla Penttinen, Livo Tuuri
Regista: Teemu Nikki
Sceneggiatori: Teemu Nikki
Durata: 97 minuti
Qui c’è quello che manca al rivale in concorso: Nikki ha un’idea chiarissima di cinema e della storia che desidera raccontare, Pekka Strang e Jari Virman sono una coppia irresistibile, nella buona sorte e nella povertà, nella malinconia e nel sorriso, nel buddy movie come nella tragedia greca. Nikku sa gestire un linguaggio non nuovo in modo originale, usando la musica come veicolo – una delle scene più belle vede il protagonista e la ex moglie che “suonano” insieme, disperati e romantici – e la morte come anestetico di un mondo che con due o tre idee di sceneggiatura audaci e riuscite il film riassume nelle sue perversioni in alcune situazioni paradossali, simboliche, emblematiche.
In una giornata di festival in cui impazzano le storie di uomini mediocri e ben oltre una crisi di nervi, vittime di ossessioni invincibili – uno il sesso, l’altro il gioco – e le donne sono passive spettatrici della loro rovina, il vero eroe è Arto (Jari Virman, già bravissimo nella serie The Night Servants) che scopre, per un banale incriccamento del collo, di non avere il cervello. Gli è rimasto un residuo, infinitesimale, ma lui parla, ragiona, ama meglio di tutti gli altri.
Senza retorica o enfasi, è lui a portare il sentimento nel cinismo di Risto Kivi, becchino che lo assolda per noia e necessità, e con cui costruisce il più bizzarro e dolente dei buddy movie, tra avventure al limite della legalità e notti passate a dormire dentro un carro funebre. Ed è sempre lui a capire il senso profondo della vita, mentre gli altri, che lo denigrano, fuggono, escludono e deridono per il suo handicap, hanno spento il cervello e pure il cuore. Nikki gioca di misura con i pattern del linguaggio cinematografico tipici dell’arte visiva del suo paese, tutto giocato su situazioni paradossali, umorismo feroce, racconto dei sentimenti intrappolati nel ghiaccio bollente (la moglie di Risto, con la sua danza tribale, gli mostra l’amore che non smetterà mai di provare per lui, nonostante tutto), l’idea di società e di famiglia che nasconde una comunità apparentemente perfetta ma realmente spietata che per vanità e accidia può vendere un amico alla stampa, umiliarlo con una battuta, cancellarlo come persona e cittadino. Arto è un eroe perché si ribella dall’alto della sua nobiltà semplice, quella che lo faceva amare dai bambini. E in un finale tenero e sorprendente (anzi no, ma ti scuote lo stesso) usa il suo corpo come metafora violenta.
La morte è un problema dei vivi dimostra due cose: lì al Nord cinema e letteratura continuano a nuotare nell’eccellenza e che I Wonder Pictures, il distributore italiano, non sbaglia (quasi) mai.
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