La storia viene riscritta nel tempio di Atene. Il monumento, bacino di racconti e personaggi che travalicano i secoli, diventa il palco per un documentario che mette in dubbio le categorie uomo-donna che da sempre hanno incastrato la società in cassetti predefiniti, ampliandone le opportunità soprattutto a favore degli atleti e delle atlete del futuro. In Life Is Not a Competition, But I’m Winning la regista Julia Fuhr Mann ibrida finzione e documentario per riportare la vita e la carriera delle atlete Annet Negesa e Amanda Reiter, interrogandosi se un nuovo posto per queste professioniste – e quelle del domani – sia possibile.
L’opera, in anteprima a Venezia 80 nella sezione della Settimana della Critica, cerca di avvicinare anche il pubblico generalista alla “bolla” queer – come la definisce Mann – non dando soluzioni definitive, ma occasioni di dialogo.
Il suo documentario viene considerato un ibrido, come mai?
Studiando la storia del documentario è facile accorgersi di come, pur con le migliori intenzioni, si vada ad accentuare sempre una certa sofferenza che si vuole mostrare nelle persone. Dal canto mio, vorrei focalizzarmi sulle diverse maniere di agire del potere, di come viene distribuito, come si è strutturato. Per Life Is Not a Competition, But I’m Winning ho utilizzato momenti utopici o di contro-narrazione per mostrare come funziona il mondo. E, visto che il punto è proprio allontanarci dalle convenzioni, ecco l’aggiunta degli inserti di finzione.
Cosa significa unire insieme il mondo dello sport e l’universo queer?
Tantissime persone si interessano allo sport e i miei film trattano sempre argomenti queer e femministi. L’idea era di mettere insieme questi due aspetti per avere l’occasione di raggiungere più persone possibili. È importante che la gente impari a non dare per scontato le questioni di genere. Il film non mostra delle soluzioni, non è quello che volevo fare, ma è ora che simili tematiche non rimangano chiuse all’interno di una bolla.
Quale soluzione pensa si possa trovare per far sentire a proprio agio gli atleti e le atlete queer?
Non mi piace l’idea che possano esserci categorie speciali per persone queer o transgender. Penso che, ad oggi, ci siano i presupposti per creare delle categorie più equilibrate. Prendiamo le paralimpiadi e i loro gruppi formati in base alle condizioni fisiche degli atleti.
In Life Is Not a Competition, But I’m Winning i protagonisti si trovano nel cuore del tempio di Atene. Che immagine speravi di restituire agli spettatori?
La trovo molto potente. Anche le riprese sono state speciali. Dovevamo essere lì molto presto perché alle sette del mattino cominciavano ad arrivare i primi turisti. Quindi avevamo circa un’ora di lavoro, a partire dalle sei. Gli attori provavano una sorta di orgoglio, in un certo senso, come se sentissero che fosse giusto trovarsi lì, in quel momento, con una troupe queer dentro a quel monumento appartenete alla storia, che dalle 6 alle 7 del mattino era la nostra casa.
Qual era l’aspetto più importante che sperava fuoriuscisse dalle storie delle sportive?
È importante raccontare le storie delle persone. Ma, per me, lo è ancora di più il modo in cui lo si fa. Su Annet Negesa era stato girato solo un documentario televisivo, ma è poca roba, si vede lei che piange, che ricorda la sua vita e il viaggio dalla sua famiglia in un villaggio dell’Africa. Un cliché. Per questo, per Life Is Not a Competition, But I’m Winning, ho voluto chiederle cosa desiderasse mostrare. Questo fa la differenza per il pubblico.
Invece con Amanda Reiter?
Amanda ha dimostrato il suo mantenere sempre la testa altra, fregandosene del resto. È qualcosa che a me risulta molto difficile. Mi ha trasmesso il non preoccuparmi di come le altre persone ci guardano e di essere semplicemente come sono.
Spera che Life Is Not a Competition, But I’m Winning possa raggiungere anche un pubblico distante da argomenti considerati prettamente queer?
A volte è estenuante uscire dalla propria bolla. A volte le persone sanno essere davvero aggressive. I festival queer sono una copertina di Linus. Ma è fondamentale andare al di fuori, sia per il pubblico che può così rapportarsi con opere queer, sia a me stessa per assorbire sempre più linguaggi cinematografici. Non penso che un documentario debba per forza essere educativo, ma che debba restituire una memoria, anche storica, quello sì.
Come vive il suo “debutto” alla Mostra di Venezia?
Sono nervosa. Non sono mai stata a Venezia, né a una festival così grande. Avevo paura che il mio film non riuscisse a trovare un posto. Quando ho cominciato a mettere le crocette sui vari festival a cui partecipare notavo che non rientrava in nessuna categoria. Non era né un film completamente di fantasia, né un semplice documentario. Invece, dopo tre anni e mezzo da quando ho cominciato a realizzarlo, eccoci al Lido.
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