Ippopotami fantasma che parlano, un viaggio nel colonialismo predatore, astronavi a forma di cattedrale che prendono in giro l’imperialismo incarnato da Star Wars combattendosi sul cielo di un villaggio di pescatori in Francia, registi sul palco con la kefiah, appelli per il cessate il fuoco e contro l’invasione dell’Ucraina.
Non c’è che dire: se la giuria della Berlinale 2024 voleva un palmarès ultra-politico ci è riuscita alla grande. Pare che ci siano state discussioni anche vivaci tra i giurati (è la stessa presidente Lupita Nyong’o, keniano-messicana, a farlo capire nel suo discorso), ma su una cosa evidentemente sono stati tutti d’accordo: i premi hanno praticamente tutti una caratura iper-politica – o, per usare una parola vetusta, d’impegno – a cominciare dall’Orso d’oro andato a Dahomey della francese Mati Diop, un documentario prodotto da Francia, Senegal e Benin dove i tesori di cui fu depredato appunto il regno di Dahomey nel 1892 lasciano Parigi per tornare nel Benin: una riflessione sulle ferite del colonialismo, e come ha detto la stessa regista, un modo “per non accettare l’amnesia come metodo”. Un risarcimento all’Africa. Giustissimo, ci mancherebbe.
Idem il bizzarro film scelto dalla giuria per l’Orso d’argento per regia, Pepe di Nelson Carlos De Los Santos Arias, il cui protagonista è sì un ippopotamo filosofeggiante – il primo ucciso nel continente americano – ma si tratta di un escamotage per parlare del sommo di tutti i narcotrafficanti, Pablo Escobar (del cui zoo privato l’ippopotamo di cui sopra faceva parte), e infatti anche il cineasta domenicano favella qualcosa sull'”imperialismo americano”.
In un quadro del genere evidente i due film italiani in concorso, Gloria! di Margherita Vicario e Another End di Piero Messina – il primo un’allegra invenzione pop, il secondo una riflessione vagamente fantascientifica – avevano veramente pochissime possibilità di portare a casa qualche statuetta: e infatti non ne hanno avuta nessuna, nonostante una buona stampa e apprezzamenti diffusi.
Ora, è vero che i giurati scelgono liberamente i loro film preferiti, ma in qualche modo, anche l’esito della 74.esima Berlinale è un segno dei tempi, in maniera forse non troppo sorprendente: sullo sfavillante red carpet che ha preceduto la premiazione al Palast qualcuno si era attaccato sugli abiti piccoli cartelli con la scritta “ceasefire now” (subito il cessate il fuoco), evidentemente riferita allo spaventoso conflitto in corso tra Israele e Hamas, sugli schermi alle spalle dei presentatori sul palco ogni tanto appariva la scritta “no racism, no Afd” (l’Afd è il partito dell’ultradestra tedesca).
Da parta sua, Mariette Rissenbeeck, direttrice uscente della Berlinale insieme a Carlo Chatrian, ci ha tenuto a ribadire ad inizio cerimonia che il festival “rimane il luogo del dialogo, un luogo in cui non trova spazio alcuna forma di odio, di discriminazione e di antisemitismo” e ha rilanciato un appello per la liberazione degli ostaggi da parte di Hamas chiedendo al tempo stesso ad Israele di fare tutto il possibile per proteggere i civili e chiedendo “la fine dei combattimenti”. Ok.
E ancora: “Il mondo va a fuoco, ma molti preferiscono rimanere ciechi”, ha dichiarato sul palco il collettivo israelo-palestinese che ha realizzato No Other Land, che ha vinto il premio per il miglior documentario e che mostra le devastazioni nella Cisgiordania da parte delle truppe israeliane in parallelo all’improbabile alleanza tra l’attivista palestinese Basel ed il giornalista israeliano Yuval (come a dire, c’è ancora speranza), “anch’io alzo la mia voce e dico ceasefire now“, ha aggiunto la giurata nostrana, Jasmine Trinca.
Tutto giustissimo, davvero. E non è che i (pochi) altri premi rimasti, pur in qualche modo più “cinematografici”, siano esenti da palpitazioni politiche: sì, perché L’Empire di Bruno Dumont (premio della giuria) è comunque uno sberleffo ad ogni forma di potere, di autorità, con le sue navi aliene che sembrano cattedrali e l’epopea di Star Wars ridotta a bislacca lotta tra bene e male sulla costa della Francia, mentre la Emily Watson (migliore interpretazione da non protagonista) di Small Things Like These – il film d’apertura del festival, con Cillian Murphy – comunque illumina “la collusione tra la chiesa e le autorità irlandesi”, ossia gli abusi e i trattamenti inumani subiti da orfani e ragazze in un convento cattolico. Perfetto.
Eppure un dubbio resta. Se è vero che la qualità di un festival è certamente dato più dalla complessiva qualità e varietà dei film che non dalle scelte della giuria, e se allo stesso tempo è sicuramente prezioso che un festival internazionale cerchi di illuminare una critica articolata sullo stato disperante del mondo, dall’altra non siamo esattamente certi che si esca da questa Berlinale con qualche idea in più su che direzione prenda il cinema in questo scorcio di millennio. Possiamo accontentarci del riconoscimento ad un veterano come il sudcoreano Hang Sansoo (gran premio della giuria per A Traveler’s Needs, con Isabelle Huppert), ci si entusiasma per l’Orso alla carriera a Martin Scorsese e la Berlinale Kamera ad Edgar Reitz, ci si eccita al passaggio di star come Adam Sandler, Cillian Murphy, Kristen Stewart, Matt Damon, Saoirse Ronan o Amanda Seyfried, ma rimane un po’ di amaro in bocca per l’assenza tra i premi dei film d’invenzione pura.
Personalmente, avremmo amato sul podio del Berlinale Palast il coraggioso The Devil’s Bath dei registi austriaci Veronika Franz e Severin Fiala (che si sono dovuti accontentare del premio “per il miglior contributo artistico” al direttore della fotografia Martin Gschlacht), mentre a nostro modesto avviso spettava all’esordiente Anja Plaschg (di suo farebbe la musicista), donna votata alla follia e alla morte in questo quasi-horror in un villaggio dell’Alta Austria del Settecento, il premio per la migliore interpretazione. Niente anche al tostissimo From Hilde, With Love di Andreas Dresen, altra donna votata agli abissi, ma questa volta per il suo coraggio solitario nell’affrontare l’orrore della banalità del male nella quotidianità della Germania nazista, e zero alla delicata ballata anti-autoritaria My Favourite Cake, della coppia di registi iraniana Maryam Moghaddan e Behtash Sanaeeha, a cui le autorità di Teheran hanno tolto i passaporti per impedire loro di venire a Berlino, e che hanno avuto una standing ovation alle loro poltrone vuote (e un contentino dalle giurie indipendenti).
Anche queste senza dubbio pellicole politiche, ma dalla potente penna dal punto di vista cinematografica, così come un premio per l’allegria emancipatoria della musica la giuria avrebbe potuto pure concederla a Gloria! di Margherita Vicario (niente campanilismo, eh, dio ce ne scampi e liberi. Però).
Tutto è politica, la vita è politica, diceva quello. Vale pure per il cinema. Non solo quand’è nobile e giusto, anche quando è pura invenzione. Amen.
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