“Questo film è il controcampo di una scena che abbiamo visto molte volte. Noi europei siamo abituati ad avere il controllo dell’inquadratura: guardiamo la gente che arriva dal mare, a volte viva, a volte morta. Io ho provato a cambiare la prospettiva”. Così, in una lunga intervista al quotidiano britannico The Guardian, il romano Matteo Garrone, 54 anni, ha rotto il silenzio sul suo nuovo film, Io Capitano, atteso in concorso a Venezia.
La storia è quella di due adolescenti senegalesi, Seydou (il 17enne esordiente Seydou Sarr) e suo cugino Moussa (il coetaneo Moustapha Fall), che decidono di lasciare casa e famiglia a Dakar per avventurarsi in Europa.
A spingerli a partire, racconta Garrone al quotidiano britannico, non è l’infelicità, o la sofferenza, ma una “semplice” sete di avventura (“l’Europa aspetta solo noi” dice Moussa al cugino, “i bianchi ci chiederanno l’autografo”). Per Garrone “le migrazioni hanno diverse ragioni: scappare dalla guerra, da condizioni climatiche avverse, dalla povertà. Ma il film parla di un’altra migrazione, che ha a che fare con la demografia dell’area sub-sahariana, un territorio in cui il 70% degli abitanti ha meno di 30 anni, e con la globalizzazione. Tendiamo a pensare che la globalizzazione sia un fenomeno dell’occidente, ma non è cosi. Anche in Africa la gente usa la tv, gli smartphone e i social network. La finestra sull’Europa è costantemente aperta: trovo molto umano, e naturale, il desiderio di andare a vivere in un posto che sembra più attraente del proprio. I due protagonisti vogliono viaggiare per il mondo, esattamente come facciamo noi. Vedono gente della loro età che lascia la Francia per venire in Senegal e non capiscono per quale ragione non potrebbero fare altrettanto. Questo tipo di migrazione è stata molto poco raccontata dal cinema”.
L’idea di Io, Capitano, prosegue il regista nell’intervista, nasce in un centro per rifugiati in Sicilia, dall’incontro fra Garrone e un ragazzo di 15 anni (il “capitano” del titolo) convinto dai trafficanti a guidare nel Mediterraneo una barca con 250 persone a bordo senza avere alcuna nozione di navigazione. “Il tema è molto delicato e ci ho messo anni a capire quale fosse il giusto approccio. Ho cercato di essere fedele a me stesso e alla realtà, provando a non complicare troppo il racconto. Il che, per un artista, è sempre molto difficile. Stavo entrando in una cultura che non è la mia e volevo fare un film con loro, non su di loro”.
Per questo motivo, sul set, Garrone ha detto di essersi circondato di persone che avessero effettivamente vissuto l’esperienza che voleva raccontare: “Sul set c’era chi aveva vissuto sulla sua pelle la tortura in Libia e chi aveva attraversato a piedi il Sahara. Mi hanno aiutato a costruire il film nei dettagli”. Il copione, scritto in italiano, è stato tradotto in francese e poi insegnato al cast in Wolof, la lingua più diffusa in Senegal. Il film, assicura Garrone, non offre giudizi di tipo morale sulla scelta compiuta dai due protagonisti: “Non dò risposte. Racconto la storia del loro viaggio e lascio che sia il pubblico a lasciarsi guidare soggettivamente dai propri sentimenti. Ciascuno trarrà le proprie conclusioni”.
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