È stata una Venezia 80 romantica. La storia d’amore di Leonard Bernstein con Felicia Montealegre (Bradley Cooper e Carey Mulligan) in Maestro ci ha strappato l’anima, quella di dovere, dolore e riscatto di Mads Mikkelsen e Amanda Collin in Bastarden pure di più, le ore passate insieme da Nicolette Robinson – e la serenata di lei al loro amore, alla loro famiglia – e Michael Pitt in Day of the fight non ci abbandoneranno mai e ancora Brizé e Allen e diversi altri: non sono mancati i momenti Spaccacuore, come li chiamerebbe Samuele Bersani.
Ma, certo, è difficile non sciogliersi dentro e fuori per Memory, la piccola grande storia d’amore tra due superstiti della vita. Un film sorprendente, innanzitutto per l’autore che ce la racconta, il cerebralissimo, parossistico, sferzante Michel Franco, regista tra i più interessanti della sua generazione ma di sicuro uno che al sentimento ha sempre preferito altro, da Nuevo Order (che pure era ambientato in un matrimonio) a Sundown era davvero imprevedibile anche solo sospettargli una così elegante e sensibile tendenza al melodramma d’amore.
Memory, la trama
Sylvia (Jessica Chastain) non beve alcol da 13 anni. Prima di allora, da quando ne aveva 12, non si era mai staccata dalla bottiglia. Saul (Peter Sarsgaard) è affetto da demenza precoce. Hanno frequentato la stessa scuola, hanno l’oblio come compagno di viaggio: lei per anni se l’è autoprocurato, lui ci convive da troppo e lo ha colto troppo presto. Una sera vanno a una rimpatriata di ex studenti e Saul vede Sylvia, così bella e triste, si siede accanto a lei e sorride. Lei fugge, lui la insegue. Lei arriva a casa, lui sotto la pioggia, nel freddo, rimane sotto la sua finestra. La mattina dopo lui dorme appoggiato a un muro di copertoni, lei chiama il fratello di lui perché lo recuperino.
Qualche giorno dopo va a trovarlo, sembra per bontà d’animo: in fondo da anni lavora con adulti feriti da malattie mentali, gli Alcolisti Anonimi ai cui anniversari porta anche la figlia 13enne (la sua vera cura, da sempre e pre sempre) sembrano averle insegnato l’altruismo. In realtà vuole vendicarsi, in lui vede un sodale e complice di Ben, il ragazzo che a 17 anni le ha rovinato la vita. Si sbaglia. Ricorda male. E qui scorgi il gusto del paradosso, il seme del cinema di Franco, che fa partire uno dei film d’amore più belli degli ultimi anni da un errore nella memoria del titolo di chi dovrebbe averla precisa e affilata e non fallata dalla malattia. Sylvia poi viene assunta come badante di lui e per il resto dovrete aspettare che esca al cinema, in Italia, per Academy Two.
Memory
Cast: Jessica Chastain, Peter Sarsgaard, Merritt Wever, Josh Charles, Elsie Fisher, Brooke Timber
Regista: Michel Franco
Sceneggiatori: Michel Franco
Durata: 100 minuti
La recensione del film con Jessica Chastain
Michel Franco ci aveva abituato a un cinema ruvido, a tratti inesorabile, sì, anche politico e con un grado di ferocia non indifferente. Ecco perché di fronte a una storia d’amore che ovviamente ha i suoi lati spigolosissimi – il passato di lei, il presente di lui, prigionieri di famiglie che preferiscono ignorarne il dolore simulando un istinto di protezione ottuso e peloso; la memoria del titolo, un’arma contro se stessi; la famiglia come luogo di presunto aiuto e sicura rovina – ma anche un incedere dolce e irresistibilmente sgangherato si rimane sorpresi.
Eppure, allo stesso tempo, Memory ha una coerenza tutta sua con il resto del cinema di questo regista messicano, lo vedi nella scena cruciale, nell’anticamera della sorella di Sylvia, Olivia, una resa dei conti imprevista, dolorosissima che si consuma in pochi minuti con verità e menzogna che ballano insieme e poi si siedono nei posti che non immagini all’inizio dello scontro. Tra silenzi di complici incolpevoli e insulti borghesi e vigliacchi (che brava Jessica Harper a disegnare in poche cose quella madre affettata e cinica) di chi rifiuta le proprie responsabilità, si consuma un dramma con la stessa desolante, antiepica semplicità di un Rachel getting Married del maestro Jonathan Demme.
Memory, però, è anche e soprattutto l’amore che bussa dove non lo vogliono, perché ne hanno paura. In casa di una donna che è una sopravvissuta, che ha costruito la sua vita modesta, insieme all’adorabile e comprensiva figlia (che le è anche madre e sorella maggiore, una sontuosa Brooke Timber), attorno ad automatismi rassicuranti, in un guscio che tiene chiuso a chiave per evitare che sentimenti, spiriti (liberi o alcolici), passato e futuro possano romperlo: un eterno presente, un giorno della marmotta che impedisca a entrambe di rischiare di soffrire. Lo stesso avviene, in una casa prigione solo meglio arredata, a un uomo la cui mente malata impone ciò che il cuore ha chiuso a chiave dentro Sylvia.
Memory, il cast
Il passato per lui è un rifugio, ma è (letteralmente) morto, il presente è, in ogni minuto o quasi, un eterno rincorrersi e ricomporsi dello stesso istante, per via della demenza che nei momenti più impensati lo porta a perdersi. Si incontrano, perché la vita è così, bastarda ma anche meravigliosa, capace di spalancarti una porta chiusa a chiave quando meno te lo aspetti. E Franco con una sceneggiatura agile ma mai fragile ci porta in queste vite che tutti sottovalutano, in queste anime a responsabilità controllata che tutti pensano troppo ferite per guarire. In cui chi li protegge, sta in parte espiando una colpa, un debito e chi li ama davvero ha un’età in cui il cuore è ancora puro e può insegnare agli altri ad amare. Sylvia ha una sorella (Merritt Wever, che bello quel dolore soffocato, quella verità repressa nel suo sguardo, quella confessione timida e tremante di chi a quell’età non doveva vedere, non doveva sapere) senza cui sembra non poter sopravvivere: le presta soldi, le tiene spesso la figlia. Saul ha un fratello (Josh Charles) che amorevolmente lo chiude in casa ed è sempre in cerca di badanti. Ma è tanto educato.
Non sono cattivi, ma forse non sono stati abbastanza buoni in passato. Perché essere coraggiosi o giusti non è un obbligo, non è facile, non puoi pretenderlo. Ma se sei un bicchiere di cristallo di fronte a quell’elefante che è la vita, la linea sottile tra alleati e complici dei tuoi aguzzini si assottiglia. Gli elefanti però possono essere messi in fuga dai topolini. Sylvia e Saul non possono non riconoscersi quando si incontrano, non ci riescono, anche se tutto urlerebbe che non è il caso, a partire dalle loro famiglie borghesi (non a caso l’unica a non giudicarli è l’ex alcolista afroamericana sua sponsor per 13 anni agli AA). Sembrano due bambini incoscienti che scappano mano nella mano. O due topolini.
Memory vi farà piangere, vi farà chiedere se il segreto dell’amore, in fondo, è proprio non avere memorie, il peso di ricordi che possono affondarti, ma anche un pretesto per darsi per scontati. Innamorarsi ogni giorno è davvero possibile, se ti dimentichi del giorno prima. Saul è vero e irresistibile, perché ogni sguardo, gesto, parola suonano come se fossero le prime. Perché può ridere e piangere insieme a te perché ha la purezza dell’animo intonso. Perché può sentire A Whiter Shade of Pale dei Procul Harum infinite volte e ogni volta trovarla unica. E permetterti di provare la stessa cosa a te spettatore, che però d’ora in poi non potrai sentirla più senza frignare senza dignità.
Non a caso a capire Saul sono due ragazze all’inizio del loro percorso esistenziale, forgiate dal dolore (altrui) ma ancora capaci di guardare oltre. Di credere nei sogni, anche quando nascono dall’oscurità di incubi insopportabili. Di un’ingiustizia come un’adolescenza o una mente rubate.
Jessica Chastain e Peter Sarsgaard a quei cuori gravati l’uno da troppi pesi e l’altro da troppo pochi, danno il loro talento immenso, una precisione certosina nei piccoli dettagli dovuta al mestiere e una poesia unica nei loro sguardi, dovuta alla chimica tra loro e al fatto che pochi altri attori come loro non interpretano un personaggio, ma lo diventano, fino all’ultimo centimetro di girovita, fino all’ultima lacrima, fino all’ultima esitazione e sorriso prima di un gesto d’affetto. Ci sono i divi, poi ci sono gli attori veri, quelli che usano ogni grammo del corpo per esprimersi, ogni espressione, postura del corpo, sguardo. Persino la biancheria intima sciatta su di loro diventa un elemento di costruzione del personaggio.
E comunque non sto piangendo. Mi è solo entrata una bruschetta nell’occhio.
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