La bellezza del cinema è la possibilità di compiere viaggi nel tempo. Se ci si stanca del cinema di oggi (capita) si può sempre ricorrere al cinema del passato. Da qualche anno tutti i principali festival del cinema hanno la sezione “classici”, dove vengono presentati i restauri più recenti di capolavori vecchi e meno vecchi. Venezia Classici è un rifugio sicuro dalle brutture del presente.
Stamattina il vostro voyeur di fiducia ha recuperato King and Country, ovvero Per il re e per la patria (1964, di Joseph Losey). È da sempre considerato un capolavoro del cinema anti-militarista: racconta la storia di Arthur James Hamp, soldato semplice di Sua Maestà britannica che durante la prima guerra mondiale diserta in un modo assai bizzarro. Non compie una fuga rocambolesca, non si traveste da civile: semplicemente se ne va dalle trincee a piedi, pensando di tornare a casa in Inghilterra, e lo ritrovano dalle parti di Calais!
Il film racconta il suo processo, durante il quale l’ufficiale difensore Hargreaves ha buon gioco nel farlo passare per matto (la sua unica scusa per quello che ha fatto è “I wanted to get away from the guns”, volevo allontanarmi dai cannoni). Ma non c’è nulla da fare, da Londra arriva l’ordine: fucilare il disertore per sollevare il morale delle truppe! Dirk Bogarde (l’avvocato) e Tom Courtenay (il disertore) sono strepitosi come tutto il resto del cast.
Il film invece, rivisto oggi, è molto bello ma non è un capolavoro: il paragone con Orizzonti di gloria, girato da Stanley Kubrick qualche anno prima, è abbastanza impietoso. Però va detto che Losey lo girò in diciotto giorni (poco dopo Il servo, forse il suo capolavoro) e forse ci infilò dentro anche i suoi ricordi dei processi maccartisti in America: un ufficiale inglese scherza con Hargreaves dicendogli di essere “sulla lista nera”, e il significato della battuta è abbastanza evidente.
La cosa che più ci ha colpito, nel film, è il fango. Piove sempre. Ovviamente pioggia finta, visto che il tutto è girato in due ambienti due ricostruiti negli studi inglesi di Shepperton. I soldati affondano nel fango, e con loro gli onnipresenti ratti, unici compagni di giochi in una guerra insensata. Il fango e la pioggia sono molto fotogenici in bianco e nero, mentre sono orribili nei film a colori. Il bianco e nero è stato la vera costante stilistica di questa Mostra. Sono girati in bianco e nero Maestro di Bradley Cooper, Green Border di Agnieszka Holland e La teoria del tutto di Timm Kroger, e sicuramente ce ne sfugge qualcun altro.
E il fango è protagonista anche nel film di Holland, che si svolge sul pericoloso confine fra Polonia e Bielorussia: in una delle scene più strazianti, un ragazzino siriano annega nelle sabbie mobili. Sì, le sabbie mobili: come in un romanzo di Salgari. Sembrano roba da Ottocento, o da ambientazione esotica, le sabbie mobili. Invece esistono ancora e contribuiscono a rendere infernale l’ingresso nella civilissima Europa dei migranti in fuga dall’Isis e dai talebani.
Per raccontare questi drammi il bianco e nero è più efficace del colore. Oseremmo dire che è più “politico”. Il bianco e nero significa reportage, grandi fotografi come Capa e Cartier-Bresson, il cinema neorealista, in una parola: la realtà. Il colore invece fa subito cartolina. Matteo Garrone e il suo direttore della fotografia Paolo Carnera lo sanno benissimo e in Io, capitano forzano i colori del Sahara per fare un film che oscilla fra tragedia e lirismo. Holland invece vuole attenersi alla cruda realtà. Per questo l’unico colore del suo film è nel titolo: “green border”, confine verde, le foreste che dominano entrambi i lati della frontiera. Foreste che da verdi sarebbero civettuole, e che in bianco e nero diventano minacciose.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma