Posso entrare? An Ode to Naples. La migliore intuizione di Trudie Styler è il titolo, che racchiude il senso della sua operazione, non solo cinematografica.
Napoli è una città aperta, spalancata allo straniero. Ma indecifrabile anche per il napoletano di varie generazioni, è un luogo vitale e vivente che ha una sua anima, più radicata e radicale di qualsiasi altra metropoli. Più Babilonia che New York, come ricorda Roberto Saviano, è l’unica rimasta uguale a se stessa, da millenni.
Trudie Styler, signora (troppo?) raffinata e dai molteplici talenti – musicista, regista, ambasciatrice Unicef, produttrice di olio e di vino ed è solo quello che torna subito alla memoria – con il marito Sting ha avuto l’umiltà e il desiderio di provare a conoscerla. Senza snaturare se stessa né la città, come avrebbe fatto una donna di cultura un paio di secoli fa, con un Grand Tour, con un’Ode alla città anticipata dalla domanda cortese, che solo in quei vicoli stretti e di fronte alla bellezza di alcuni scorci e al dolore di altri, ha sempre una risposta affermativa: posso entrare?
Ed è interessante capire, in una rivelazione ovvia, mentre guardi il film, che l’unico luogo che prevede una sentinella a Napoli, qualcuno che escluda, mandi via, respinga un altro essere umano, è Scampia, è Caivano. È Gomorra. Altrove Napoli ti accoglie, sempre (e anche lì, va detto, perché troverai, vicino alle piazze di spaccio, luoghi di rinascita).
Posso entrare? Ode to Naples
Cast: Don Antonio Loffredo, Clementino, Roberto Saviano, Jorit, Francesco Di Leva, Alessandra Clemente, Associazione Forti Guerriere, Vincenzo Pirozzi, Lorenzo Martone, Silvia Martone, Michelle Guarino, Nora Liello, Antonio Amoretti, Paolo Acunzo, Poppò, Carmine Cervone, Lello Esposito, Jorit, Ralph P, Francesco Di Leva, Immacolatina e Gennaro Palmieri, Vincenzo Palumbo, Alfonso Iaccarino
Regista: Trudie Styler
Sceneggiatori: Trudie Stier
Durata: 103 minuti
Posso entrare? An Ode to Naples, la trama
Un’artista britannica al suo terzo film, ingiustamente conosciuta da troppi solo come consorte della rockstar Sting, decide di visitare Napoli. E raccontarla. Sceglie dei Virgilio – don Antonio Loffredo bussola morale del film, Roberto Saviano, Jorit, Francesco Di Leva, tra gli altri, e altre come Alessandra Clemente, un collettivo di donne coraggiose (l’associazione Forti Guerriere), Immacolatina – e dei luoghi simbolici, da San Giovani a Teduccio (dal murale di Maradona al Nest) al Man, da Scampia a Secondigliano, dal Vesuvio alle Napoli di un prete coraggioso, che nella sua splendida sagrestia allestì un ring, che in un funerale ispirò delle donne a ribellarsi contro il maschilismo tossico, un Don Peppe Diana del terzo millennio (che bello Saviano che con tenerezza afferma che in fondo il suo lavoro è una vendetta contro quel barbaro assassinio di un uomo straordinario).
Un tour di Napoli che si ispira dichiaratamente a Shelley e che cerca l’anima profonda di un luogo multiforme, di una città sirena, mostro nel senso letterale del termine (meraviglia) ma anche nella sua accezione negativa. Tutto puntellato dalla musica, da canzoni significanti, da un percorso dispersivo ma seminato di bellezza. Perché Napoli, anche all’inferno, è bellezza pura.
La recensione del film di Trudie Styler
Come giudicare Posso entrare? An Ode to Naples è un bell’enigma. Partiamo dai difetti: è dispersivo, prova a trovare in Don Antonio Loffredo una guida e un riferimento, in uno di quei parroci eroi che Napoli ha saputo regalarsi (e a volte tradire) che salvano vite, anime, pezzi di città e non contenti riescono ancora a sorridere alla meraviglia che hanno davant. E probabilmente l’errore è stato non farne l’unico Virgilio, non scegliere un taglio specifico, il suo, nel guardare dentro la città.
Paolo Sorrentino un giorno disse di Maradona che “non si può raccontare in un film, la sua vita e chi era, lui è troppo: se lo facessi io forse, chissà, racconterei i 15 minuti prima della finale del mondiale del 1986”. Ecco, Maradona è Napoli anche in questo: non si può raccontare tutta Napoli, una panoramica è impossibile. Si possono raccontare tante Napoli, ecco perché un’artista deve sempre sceglierne una. E accontentarsi di essere la tessera di un mosaico che geni e capolavori costruiscono da secoli, come una Sagrada Familia che non finisce mai, ma che diventa sempre più bella.
Trudie Styler invece prova a fare tutto e così offre sprazzi di bellezza ma anche un senso di irrimediabile incompiutezza. Tutti troveranno qualcosa di speciale, dentro al suo film, nessuno ne uscirà davvero soddisfatto. Dalla Resistenza allo chef alle pendici del Vesuvio, finisci per soffrire di una cinelabirintite.
Però. Però poi devi anche pensare che grazie alla notorietà di chi l’ha girato, sarà un altro messaggio nella bottiglia che Napoli manderà al mondo. Dopo il Sorrentino di È stata la mano di Dio e la Passione di John Turturro, per prendere due splendidi opposti della cinematografia su Napoli, dopo De Sica e Gatta Cenerentola, ecco qui il grand tour di una donna dalla voce flautata, dalla retorica anglosassone – c’è, ma ha il pregio della solennità – che accarezza come un’elegante guida d’altri tempi, angoli, immagini, parole, azioni. Maradona, ovviamente, anche se appena sfiorato. Con momenti molto speciali.
Le sequenze indimenticabili del film di Trudie Styler
Dolorosissimi come Saviano che afferma “avrei preferito che mi ammazzassero? Sì, lo dico, l’avrei preferito”, parole appoggiate su una visione dall’alto, bellissima della città, in un momento di disarmante e lacerante sincerità. La stessa che con un sorriso amaro, malinconicamente divertito, gli fa ricordare quanto odio ci sia per lui nella sua città.
Stupendi, come Sting che dentro Secondigliano, davanti alle celle canta Fragile suonando una chitarra fatta nel laboratorio di liuteria del carcere, con il legno di un barcone di migranti approdato a Lampedusa. Come i titoli di coda che sono un montaggio di immagini che ci dicono che un altro film era possibile, la regista l’aveva pure indovinato, ma poi è andata altrove.
Vibranti, come la voce di Francesco Di Leva, fresco di un David di Donatello meritatissimo, che racconta fermo, ancora e sempre emozionato, grato del suo quartiere. Di come abbia voluto restituirgli qualcosa entrando da una finestra di una palestra che diverrà poi, con cacciaviti, passione e un sogno nel cuore, un teatro indipendente, il NEST. Una delle realtà artistiche più fertili e coraggiose non solo della città, ma d’Italia.
La colonna sonora
La regista ha delle ottime intuizioni, come quella della musica. Puntellare il racconto con la Neapolis di Clementino, bel bignami rappato della storia della città, per finire con Alleria di Pino Daniele (ancora più ritratto della città di Napul è, scelta raffinatissima), passando per la già citata Fragile, le note di Malafemmena e persino La vita è bella suonata da dei ragazzi in un luogo speciale, dà un’identità al film mentre rischia spesso di perderla. E dire che prova anche a spiegarglielo Saviano, ma non se la prenda la cineasta, l’hanno capito pochissimi. Napoletani compresi, che dell’immensità del luogo che li ospita e li anima si accorgono solo quando vanno via. E neanche sempre.
Si lamentano di Gomorra, perché non capiscono che quello è uno dei tanti universi paralleli partenopei. Perché far vedere solo quel lato, si chiedono, non rendendosi conto che non sono bastati un libro, un film, cinque stagioni e un altro film per completare l’affresco di quella parte ridotta dell’identità napoletana. Goethe diceva che Napoli è un paradiso abitato da diavoli, ma per esempio neanche lui aveva capito quanto fosse vero anche il contrario.
A Napoli, è sempre vero anche il contrario. Della limitatezza dell’uomo di fronte alla natura divina e terrena, tentacolare e marina, peculiare e infinita di questa città si è accorto davvero solo Sorrentino.
Ecco, se possiamo rimproverare qualcosa alla regista, è questo. Non aver trovato un taglio al suo documentario, che poteva essere anche il racconto delle Napoli altre: ed è curioso, perché una realtà da raccontare l’aveva in casa, quella Mad Entertainment che l’ha prodotta (con Big Sur e Rai Cinema e Luce Cinecittà) e che vive il suo fermento creativo in uno dei suoi palazzi più simbolici. Ne rappresenta l’essenza della sua modernità, ma anche dell’amore per le sue tradizioni. E chissà, si poteva passare pure dai Jackal, indagare le nuove musicalità. Oppure sporcarsi di più le mani nelle periferie, che a Napoli spesso sono centralissime, altra meravigliosa contraddizione.
Napoli, lo racconta bene questo il suo film, impone e pretende delle scelte. Il film ne fa troppo poche.
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