“No! Non avrebbe mai vinto nulla! Sono felice non sia in competizione!”. Incontriamo Richard Linklater sul roof top di un albergo del Lido da cui si scorge il campanile di Piazza San Marco. La reazione della stampa al suo Hit Man presentato fuori concorso a Venezia 80 è stata calorosa e unanime. E più di un giornalista si è domandato perché il film – ispirato a una storia vera e a un articolo scritto vent’anni da Skip Hollandsworth su Texas Monthly – non abbia trovato un posto tra i film in gara per il Leone d’oro.
Ma lui, sebbene lusingato, cerca di sminuire. “Non mi piacciono le competizioni”. C’è vento ma una tettoia elettrica ci ripara dal sole. Almeno fino a quando non si richiude, con nostra sorpresa, automaticamente. “Non sarà una buona soluzione a lungo termine”, scoppia a ridere il regista di Boyhood. Jeans scuri e camicia nera, taglio da cowboy texano. Ma all’altezza delle clavicole impossibile non notare il ricamo della testa di due gatti speculari dai cui occhi si sprigionano fasci di luce verde.
Un outfit che rimanda a un particolare del film. Il protagonista di Hit Man, Gary – un gigantesco Glen Powell anche co-sceneggiatore della pellicola – è un professore di filosofia. L’unica presenza fissa in una vita piatta sono proprio due gatti, Es ed Ego. Come lavoro part-time collabora con la polizia sotto copertura fingendosi un sicario. È il migliore in circolazione. Almeno fino a quando non incontra Maddy (una splendida Adria Arjona), decisa a far uccidere il marito violento. Ma nulla va secondo i piani e i due iniziano una relazione. Solo che lei non ha idea che l’uomo affascinante che uccide per vivere sia in realtà solo un timido insegnante…
Noir, commedia, thriller, dramma psicologico. Tantissimi generi diversi. Come li ha gestiti insieme a Glen Powell in fase di scrittura?
La storia di Gary Johnson e tutta la sottotrama sottostante ci ha ossessionati. Un insegnante dal temperamento mite che si finge sicario. Ma alla lunga era un po’ ripetitiva. Lui che fa arrestare una persona dopo l’altra. Solo che, ad un certo punto, decide di lasciare andare una giovane donna che l’aveva ingaggiato. Così ci siamo domandati: “Se lei lo richiamasse per invitarlo ad uscire?”. Ed è così che rimane intrappolato in quel personaggio che aveva creato. Siamo partiti sia dal romanticismo che dal noir. Li abbiamo mischiati e, in un certo senso, sovvertiti.
Nel film Gary afferma che i sicari non esistono, che la nostra ossessione è stata alimentata dal cinema. Quali sono i film sui sicari che ama di più?
Oh, ce ne sono tantissimi. Penso a un film della fine degli anni Cinquanta chiamato Assassinio per contratto diretto da Irving Lerner e con protagonista Vince Edwards. L’ho visto solo una volta, ma è una gemma. Un film a basso budget, ma davvero ottimo. Ne ho inserito un frammento nel film.
Crede che sviluppando la sua identità sotto copertura, il vero Gary fosse una sorta di attore lui stesso?
Gary nel film dice: “Sono sempre stato troppo timido per recitare”. Ma questo non significa che non fosse un bravo attore. Molti attori sono timidi ed è per questo che recitano. Così possono diventare un’altra persona. In un certo senso, forse, sotto copertura ha scoperto il coraggio di recitare. Doveva farlo in modo professionale. Ma sì, anche quella è recitazione. Ogni attore dirà che tutti recitano sempre. Ti guarderanno e diranno: “Stai recitando anche ora. Stai recitando da giornalista. Stai recitando da regista. Ti comporti diversamente con i tuoi nonni rispetto al tuo partner”.
Il suo film parla anche di identità. Viviamo nell’era dei social media dove tutti cercano di fingere di essere qualcos’altro…
Il fatto è che viviamo in una società in cui le nozioni di identità sono abbastanza instabili. Penso sia davvero un problema di questo secolo. Le cose si stanno spostando. Basta anche solo pensare all’idea delle star dei reality che sono famose per essere famose! E stanno recitando. Così chi usa i canali YouTube per mostrare le loro vite fantastiche. Non può essere così semplice. Alcuni degli impulsi dietro sono così bassi. È come un mix di materialismo e invidia sociale. Non credo siano cose positive. Molte persone ora possono essere chiunque vogliano. Volevo che il film riflettesse un po’ quella situazione, senza essere esattamente quello. Riguarda la verità e si può estendere anche nel campo politico e sessuale. Detesto la disinformazione e le bugie. Ma l’idea che le persone si sentano libere di essere chi vogliono o di aspirare a esserlo mi piace.
Ha già esplorato il concetto di identità nei suoi film. Dalla trilogia di Prima dell’alba a Boyhood passando per Tutti vogliono qualcosa. Cos’è che l’attira così tanto di quest’esplorazione?
Non lo so (ride, ndr). Se guardo indietro a certe storie che ho scelto di raccontare, penso che sia perché sono interessato alle persone che cercano di capire chi sono nel mondo. Ho sempre creato personaggi che si pongono domande. Penso che io stesso proceda per il mondo in questo modo. Faccio le domande più semplici. “Cosa diavolo stiamo facendo qui? Cos’è questa cosa? Chi siamo? Perché siamo qui?”. Di base sono un’esistenzialista vecchia scuola.
Alcune delle storie che ha raccontato in Hit Man sono così folli da sembrare irreali. Che idea si è fatto di quelle persone? E cosa pensa che dicano dell’umanità?
Beh, la risposta ovvia è: “Se vuoi uccidere qualcuno, dovresti farlo da te”. Non dico che sia questo il messaggio del film (ride, ndr). Ma sono perennemente affascinato dalle persone che arrivano un punto di non ritorno. Mentre ascoltavo le registrazioni e guardavo tutti quei filmati di sorveglianza durante la fase di ricerca pensavo che fossero persone disperate. Probabilmente nel momento peggiore della loro vita. Stavano facendo una scelta enorme e terribile. Ma non sono stati spinti a farlo. Pensavano di essere abbastanza furbi da non farsi beccare. È una malattia sociale. Pensare che si possa far uccidere qualcuno è spaventoso.
Ma è anche affascinante. È qualcosa di davvero mitologico. Il cinema ha inventato i sicari nel modo moderno. Penso che forse, perversamente, – e questa è solo una mia riflessione – piaccia così tanto l’idea perché dà potere a tutti. “Potrei farlo se volessi”. Andiamo in giro per il mondo pensandolo. E c’è anche un’altra cosa. Non so che parola usare se non stupidi. Sono degli stupidi se pensano che per delle cifre bassissime – c’era anche un ragazzino che voleva pagare Gary con dei videogame – qualcuno rischierebbe la pena di morte in un posto come la Louisiana o il Texas. Solo per aiutare qualcuno che non conoscono. È pazzesco!
Alcune sequenze ricordano le screwball comedy della vecchia Hollywood. Ha avuto qualche riferimento cinematografico specifico? O ha chiesto ai suoi attori di recuperare qualche vecchio film?
Abbiamo visto più noir. Ma sono a quel punto della mia carriera in cui non guardo nulla! Ho le tonalità generali delle cose. E sono un tipo da screwball comedy alla Preston Sturges. Ricado abbastanza felicemente sulla battuta veloce. Ne sono consapevole. Ma è una situazione insolita da inserire quando gli enigmi sono così divisi tra vita e morte. È stato divertente iniettare una storia moderna con quei riferimenti. Perché qualcosa del genere non scompare mai dal set up di base delle screwball comedy. Due persone che sono destinate a stare insieme, ma non lo sono. È semplice. Ma è la stessa cosa che tutti provano nella loro vita. Ho fatto una trilogia su questo! In queste storie è sempre ciò che tiene separati i personaggi il centro del racconto, non ciò che li attira.
Nel film ci sono delle scene di sesso. Ha lavorato con un sex coordinator?
Credo ci siano stati troppi attori giovani che hanno avuto esperienze imbarazzanti. Li abbiamo usati e ho chiesto ai miei attori in che modo si sarebbero sentiti più a loro agio. Li ho lasciati coreografarle. Non gli dicevo cosa fare con esattezza. Ci vuole un po’ per sentirsi potenziati in quest’industria e mi piacciono le cose fatte con coscienza per evitare ogni possibilità di abuso.
Lei è uno dei registi più importanti del cinema indipendente statunitense. In anni di blockbuster, algoritmi e vari sequel, crede che il cinema indie rimanga l’unica opzione per chi vuole vedere qualcosa di diverso?
Ora i film vengono approvati e gestiti dai reparti di marketing. Quindi se c’è qualcosa che sembra loro complesso lo guardano ma ne hanno paura. Lo chiamano “execution aziendale” (la capacità di raggiungere gli obiettivi aziendali, ndr). Un film come Hit Man non riescono a capire esattamente cosa sia. E quindi li spaventa. Film come questo devono essere realizzati in modo indipendente e a basso costo. Perché i responsabili del marketing non lo prenderanno mai in considerazione.
Parlando di Studios, cosa crede che succederà a Hollywood con lo sciopero?
Quando sei in sciopero, non so quale possa esserne la fine se non la risoluzione dello sciopero stesso. Stiamo rinegoziando vecchi accordi. Penso che la marea debba cambiare abbastanza presto. Ho sentito dire che persino gli azionisti non sono contenti. “Dovete tornare a lavorare. Avrà un impatto sul nostro bilancio”. È strano vedere cambiare l’industria nel corso degli anni. Ci sono stato abbastanza a lungo da avvertirlo. Negli ultimi dieci anni si è trasformata tantissimo. E non è sempre positivo. Quando lo status quo funziona abbastanza bene per tutti e poi cambia forse puoi tornare indietro. Un paese che era una democrazia e poi diventa un’autocrazia può tornare a essere una democrazia. Puoi correggere il percorso. Penso che sia quello che molte persone stanno cercando di fare.
Dopo Boyhood sta lavorando su un altro progetto a lungo termine, Merrily We Roll Along. Cosa l’ha spinta ad affrontare questo film e perché Paul Mescal era l’interprete giusto?
È un attore meraviglioso, ed è un ottimo cantante. Non so se le persone lo sappiano. Il lavoro non potrebbe essere più diverso da Boyhood che ho girato ogni anno. Merrily We Roll Along è un musical che si svolge in ordine inverso nel corso di vent’anni. E Stephen Sondheim (autore dell’opera originale insieme a George Furth, ndr) è stato un grande compositore. Il film in sé è uno sguardo a lungo termine sull’amicizia tra tre persone.
Stiamo vivendo in un momento di cambiamento culturale. Cosa la spaventa di più del tempo in cui viviamo? C’è, invece, qualcosa che pensa possa aiutarci a crescere e migliorare?
Anche con Hit Man sto cercando di dare un messaggio di potenziamento. “Cogli l’identità che vuoi esprimere e sii quella persona con passione”. Fai un piano. Non fissarti solo sul telefono tutto il giorno. Ho dei figli e dico loro di non essere uno “schermo-ager”. C’è un mondo là fuori. Stiamo consegnando le nostre menti a delle tecnologie piene zeppe di pubblicità. È il trionfo del capitalismo. Sei ciò con cui riempi la tua mente. L’ho sempre pensata così. Incoraggio le persone a leggere i classici e ad essere esseri umani a tutto tondo. Penso ti renda un cittadino migliore. Non credo che la psiche umana sia mai entrata in contatto con una macchina più manipolativa.
Ogni secolo è stato definito dalle tecnologie dell’epoca. Le macchine industriali, i motori a vapore, le automobili, gli aeroplani. E poi abbiamo avuto l’era dell’informazione nell’ultima parte del XX. Non so in che fase siamo ora. È come se l’era dell’informazione abbia prodotto delle società tecnologiche in cui il tuo percorso è già deciso. Ma penso anche che l’era dell’informazione sia finita. Siamo entrati in nuova fase che non sappiamo neanche come chiamare. Ci sta cambiando in modi che non sappiamo come trattare. Spero che le persone lo abbiano visto nel film. Spero vengano coinvolti e cerchino di fare un cambiamento.
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