Nasce da una storia vera, Shukran – che in arabo significa grazie – quella del film di Pietro Malegori. La storia di di un cardiochirurgo pediatrico, Taher Haider, interpretato da Shahab Hosseini (Una separazione, Il cliente), un uomo siriano che sceglie di salvare il figlio di un terrorista jihadista, lo stesso che gli ha ucciso il fratello. E lo fa proprio per onorare la sua ultima promessa.
Ha radici lontane, Shukran, nella violenta guerra scoppiata in Siria nel 2011, ma – parafrasando Hemingway – è una campana che risuona per tutti, riportandoci alle radici della nostra stessa umanità. Pietro Malegori, con lunghe ricerche culturali ed estetiche, ne fa il suo coraggioso esordio alla regia.
Shukran, ambientato in Siria ma girato in Puglia e di produzione prevalentemente italiana, vede la sua anteprima assoluta, fuori concorso, domenica 29 ottobre, nella serata conclusiva di Alice nella Città 2023. Prima del debutto, The Hollywood Reporter Roma ha parlato con il regista e con il cast presente nella capitale: Husam Chadat (L’uomo che vendette la sua pelle, 2020) Camélia Jordana, Antonio Folletto.
Malegori, da dove nasce l’idea di un esordio così “lontano”, girato anche in un’altra lingua?
Già dai miei precedenti cortometraggi e documentari mi ha sempre attirato e affasciato l’idea di raccontare storie molto diverse dal contesto italiano e dai film che siamo abituati a vedere. Sono incappato in questa storia anni fa e da lì abbiamo iniziato lo sviluppo della sceneggiatura e la parte di ricerca, che è stata fondamentale perché non solo andava ricostruita l’ambientazione siriana in Puglia, con molta ricerca fotografica e scientifica ma anche la lingua, appunto. Il lavoro con gli attori è stato determinante e fondamentale per me è stato avere un dialogue coach, ma soprattutto un dialect coach. Abbiamo fatto un lavoro molto preciso, tanto che gli attori non solo recitavano in arabo siriano, ma cambiavano accento in base alla zona della Siria di riferimento.
Ha incontrato resistenze nella realizzazione di Shukran? Non le hanno consigliato di iniziare da qualcosa di più semplice?
Sì, chiunque (ride, ndr). È un film molto ambizioso, anche perché non è ciò che ci si aspetta da un’opera italiana. Ho avuto però la fortuna di trovare dei giovani produttori (Giulia Invernizzi Cuminetti, Emanuele Berardi) che mi hanno indirizzato e mi hanno dato la possibilità di portare avanti il progetto così come lo volevo io. Le difficoltà sono state tante, a partire dal fatto di dirigere un set in una lingua non mia, ma tutte ripagate.
Come ha lavorato all’adattamento del libro da cui è tratta la storia?
Ho conosciuto Giovanni (Terzi, l’autore dell’omonimo romanzo, ndr) anni fa, avevo letto il libro e avevo capito che poteva diventare film. Bisognava però andare oltre i fatti realmente accaduti, cioè il medico che deve trovare a tutti i costi il bambino da salvare come ultimo desiderio del fratello. Intorno andava costruita una storia godibile al cinema. Per esempio tutta la parte relativa agli anni Settanta, al rapporto con il fratello da bambini, è stata aggiunta in fase di sceneggiatura.
Quanto sono durate le sue ricerche?
Da quando abbiamo iniziato a scrivere il soggetto fino alle riprese sono passati 5 anni, questo mi ha permesso di approfondire ogni aspetto dei personaggi. Non essendo siriano ho dovuto contattare persone siriane per i costumi e la scenografia, per ricostruire al meglio gli ambienti e il contesto. Tutte le uniformi dei caschi bianchi, per esempio, sono riprodotte sui modelli originali. Abbiamo fatto anche una ricerca meticolosa delle location. Il location manager è riuscito a trovare delle gallerie sotterranee sotto Gallipoli perfette per il bunker dei terroristi. E poi c’è stata ovviamente tutta la ricerca religiosa (relativa al gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, ndr).
A proposito di fede, Taher come chirurgo è il “dio” della sua sala operatoria. Come ha costruito nel personaggio il conflitto con la volontà di Allah?
C’è una scena alla fine del film in cui emerge questo tema, molto interessante. Da una parte i terroristi hanno una fede e un credo, il volere di un dio che stabilisce chi vive e chi muore. Taher, tuttavia, proprio come un dio riesce ad arrivare al covo dei terroristi dicendo ‘Allah ha voluto che arrivassi fino a qui, io posso salvare questo bambino’. Fa un passo verso l’altro, un salto oltre quello in cui lui stesso crede, per salvare una vita.
E lo fa con le sue stesse mani, nude…
Sì, le mani sono un elemento su cui ci siamo visivamente molto concentrati, quando le lava, quando opera, quando mangia. Sono il suo strumento per agire nel mondo. E a me piaceva raccontarlo così, tramite queste inquadrature.
Alice nella Città è il primo festival in cui presenta Shukran. C’è un valore aggiunto nel farlo per un pubblico così giovane?
Sì, perché è una storia che aiuta a conoscere temi che prima o poi tutti dovrebbero affrontare. O almeno interessarsene, per poi in futuro provare a cambiare le cose. Come dice uno dei personaggi del film, ‘noi abbiamo iniziato questa guerra ma starà ai nostri figli porvi una fine’. È un monito, un lascito.
E c’è un messaggio che si aggiunge considerando l’attualità a Gaza?
Assolutamente. Il messaggio è raccontare una storia che deve essere raccontata. Siamo abituati ai media che trattano la guerra come un flusso continuo di immagini. Se si vanno però a raccontare le singole storie, come in questo caso, o il percorso di trasformazione che fa il singolo uomo, è diverso. Ed è per me fondamentale. Il messaggio è incarnato dallo stesso protagonista, Taher, che all’inizio è distaccato e poi durante il suo viaggio vede di persona la Siria distrutta, quella che prima non voleva vedere. Ed è un messaggio semplice: aprire gli occhi, guardare le cose, non ignorarle.
Chadat, lei che è siriano, cosa l’ha convinta ad accettare il ruolo in questo film, che narra la sua terra da lontano?
La cosa più importante è sempre la storia, anche al di là della nazionalità del regista o del film. Deve piacerti, devi sentirla emotivamente. È il processo creativo che importa. Per il ruolo io ho pensato molto a mio padre mentre recitavo, perché così come il mio personaggio (il padre del protagonista, ndr), era un militare. Certo, quando il regista mi ha detto che avremmo girato tutto in Puglia sono rimasto sorpreso. Non credevo fosse possibile, ma quando ho visto le foto o sono arrivato sul set mi sono dovuto ricredere. Per quel che riguarda il messaggio, invece, mi ha molto colpito l’idea di far prevalere l’aiuto, l’umanità sulla vendetta, che è una delle cose più difficili da fare, soprattutto in guerra. Mi ha ricordato di quando, da bambino, chiesi a mio fratello, ‘perché abbiamo nemici? Perché non viviamo in pace?’. E lui ovviamente non aveva una risposta da darmi.
Jordana, il suo personaggio, Jala, la dottoressa collega del protagonista Taher, si può definire lo specchio del pubblico? La testimone del suo atto di coraggio, ma anche il filtro emotivo della storia.
Sì, c’è questa componente ma c’è anche altro. Ciò che mi ha colpito della mia Jala è che non ho mai incontrato nessuna come lei. In Francia, da dove provengo, mi sono interessata alla questione, o anche “crisi” migratoria, sono andata nel più grande campo rifugiati, la “giungla”, termine che trovo disgustoso, e incontrato molte persone lì ma nessuna simile a lei. Penso ci sia una ragione. Quelle come lei scelgono di restare in Siria. E il motivo, secondo me, è perché solo restando lì può sentirsi utile. Al di là del fatto che sia un medico, proprio per come lei vede se stessa. Poi sì, ogni mia scena ha a che fare con la morte, quindi la componente emotiva è costante.
Folletto, lei come si è avvicinato al film, come ha vissuto il suo ruolo?
Mi ha colpito il fatto che al di là della guerra Shukran ponga al centro il valore della vita, mettendo in discussione tutto il resto, l’ideologia o la politica. È bello che la produzione abbia permesso di realizzare un’opera del genere. Nel caso del personaggio che interpreto, Vincenzo, mi ha attratto il fatto che lui avesse scelto di andare lì, in Siria, liberamente, diventando poi appunto testimone del viaggio di Taher. Vive un conflitto interiore tra il rischio che corre e la volontà di sostenere la missione del protagonista, consapevole delle sue responsabilità (Taher vuole salvare il figlio di un terrorista che continuerà a combattere al posto del padre, ndr). La cosa importante anche per Pietro era restituire la grande ammirazione di Vincenzo per Taher, che lui vede come un maestro, ma restituire anche la preoccupazione per questa cosa assurda che Taher decide di fare. Io stesso quando ho letto la sceneggiatura sono rimasto in silenzio e mi sono chiesto, cosa avrei fatto al suo posto?
Infatti colpisce l’idea dietro al titolo: Shukran, grazie, una parola semplice, naturale, in contrasto con il perdono, che non sempre lo è. Come avete lavorato tutti insieme per creare questo stato d’animo alla base del film?
Questa è una cosa enorme, importantissima, ma per quanto riguarda me e il mio personaggio non è stata affrontata in modo diretto. Su questo piano credo che si parta dalla consapevolezza che siamo esseri umani e che si può sbagliare. Mi sento di dire che sul piano della guerra la questione non è capire da che parte stare. È una questione, semplicemente, di bambini, donne, uomini che muoiono per decisione di altre persone. Al contrario, in questo caso, c’è un protagonista che, mettendo da parte tutto il resto, sceglie di fare il gesto forse più naturale possibile, o almeno così dovrebbe essere, quello di salvare una vita.
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