Quando un film italiano ti stupisce e ti spiazza, sei sempre tentato di pronunciare la frase simbolo del grande Stanis La Rochelle, il divo de Gli occhi del cuore (per chi non fosse un adepto, parliamo della serie Boris), “non siatemi italiani, che oggi spacchiamo tutto!”. Perché c’è la convinzione che alle nostre latitudini certi film, certi ritmi, certe visioni non si possano avere. C’è uno strano riflesso pavloviano per cui una indubbia pigrizia produttiva e creativa diventa una questione di antropologia artistica.
I 29enni – li ha compiuti il 10 agosto scorso – talentuosi e visionari come Simone Bozzelli servono proprio a questo, a terremotare certe convinzioni e convenzioni stanche come il mercato cinematografico italiano, a dirci che ci sono cineasti che sanno accarezzare luoghi, corpi e sentimenti – che sia in un videoclip dei Maneskin, I wanna be your slave (che poteva essere serenamente anche il titolo del suo film) o un esordio sorprendente – e che sanno farlo con un’estetica e un passo di rara qualità e potenza. La storia di Yuri e Augusto l’abbiamo già vista. Un rapporto che insegue la libertà, la teorizza, la idolatra, senza capirla e rendendola il trofeo che si contendono un carnefice e una vittima, senza ben sapere chi sia cosa. È Il sorpasso della generazione Z che incontra Kechiche, è un’opera libera, lei sì, di far incontrare due giovani uomini incapaci di vivere secondo le regole sociali e che scoprono, nell’altro, cosa vogliono davvero. Con una violenza e un dolore che non esclude mai il dialogo febbrile tra i loro occhi, corpi, desideri e sì, incidentalmente, anche parole.
In un giorno, tra lei ed Edoardo Leo, abbiamo visto due film completamente diversi ma entrambi concentrati su figure maschili atipiche. Possiamo azzardare che nel cinema italiano non allineato sia in atto una riflessione sul maschio?
La cosa di questo film che più mi interessava era il fatto che spesso questo tipo di relazioni viene raccontato con un uomo come carnefice e la donna come vittima. Quando c’è un sentimento tossico di sfruttamento l’uno dell’altro, la dinamica della narrazione non solo cinematografica viaggia su quel binario. La cosa su cui ho voluto ragionare è che non è tanto e non solo un problema di genere, quanto di potere tra le persone, di voglia di instaurare, di soggiogare l’amore a determinate logiche. Mi interessava il fatto che Yuri ad un certo punto diventasse una sorta di casalinga anni ’50 che stava nel camper a cucinare le polpette e che non potesse essere facilmente identificabile in uno stereotipo. È come un liquido di contrasto che ti fa vedere le cose in una maniera diversa, più interessante.
La inquieta sapere che nel suo film si sente lo spirito de Il sorpasso incastrato nelle dinamiche de La vita di Adele, in cui chi sembra comandare nel rapporto in realtà è probabilmente chi poi risulterà più dipendente?
Guarda, tutti dicono che non hanno riferimenti, io lo dico subito, ne ho tantissimi, penso che per ogni scena ti potrei dire un film al quale mi sono ispirato, però secondo me è proprio l’eterogeneità di queste reference che vanno dai film di Larry Clark a La strada di Fellini che poi portano a qualcosa di nuovo. Il problema è quando ne hai uno solo di riferimento: ho recentemente fatto parte di una giuria in un concorso per cortometraggi e non sai quanti wannabe Lanthimos ho visto. Invece il tuo stile è fatto di tutto ciò che ti piace ed è il tuo sguardo a renderlo unico e a far sì che le citazioni siano invisibili perché le hai rielaborate. Poi, sembra essere sempre un difetto quello di guardare ai maestri, ma lo hanno fatto tutti, sempre. Se guardi Andrea Arnold e la usi come reference, devi sempre ricordarti che lei stessa si è serenamente ispirata al cinema di Morrisey e a Thelma e Louise.
Come ha lavorato per costruire così bene il rapporto tra Yuri e Agostino (i bravissimi Andrea Fuorto e Augusto Mario Russi)?
Sul set non sono machiavellico, mai. Però è vero che quando mi sono reso conto della gelosia di Andrea Fuorto per quel prurito di realtà che mi restituiva Augusto e che cercava di replicarlo per piacermi, così come Augusto invidiava la precisione e la competenza d’attore di Andrea, che parlava il mio stesso linguaggio, non usciva mai dal frame, faceva sempre la cosa giusta, un po’ ho sfruttato la cosa. Quando ho notato questa rivalità tra loro posso dire di non averla scoraggiata. E quel braccio di ferro, delicato, che facevano per sedurmi artisticamente credo abbia aiutato, e molto, la loro recitazione e relazione sul set. Si era creata quella piccola dinamica di potere e dipendenza – l’uno doveva imitare l’altro, avevano bisogno delle qualità l’uno dell’altro – che poi replicavano recitando.
Pensando proprio a Kechiche, in verità quando un regista racconta un rapporto tossico, sul set diventa sempre un triangolo.
Ma certo, tra attori e regista c’è sempre una dinamica di seduzione, devi avere un rapporto speciale per incarnare l’idea di un altro e per affidargliela. Io, poi, al di là del set o delle letture della sceneggiatura, ho passato tanto tempo con loro. Sono stato quattro giorni a casa di Augusto, sono uscito con lui e con Andrea, sono anche un fotografo e ho condiviso con loro molte delle mie istantanee e anche i volumi dei grandi fotografi che preferisco. Così loro hanno capito cosa mi piaceva, il mio sguardo sul mondo e in questa dinamica di seduzione me l’hanno restituita. Gli è venuto naturale abbassare pantalone e mutanda, mostrare l’unghia lunga e sporca, quel sudore, lavorare sul corpo in una certa maniera (Fuorto, per il film, ha perso 15 chili – ndr).
Un cinema a cui in Italia non siamo abituati.
È il cinema che mi piace, un cinema che non ho problemi a definire erotico, sono innamorato del concetto dell’erotismo al cinema, tu citavi Kechiche e di lui, ad esempio, amo il voyeurismo, il guardare attraverso uno spioncino e poi quasi aggredire l’attore standogli addosso con la macchina da presa. Una cosa che i direttori della fotografia, con il loro feticismo per le ottiche grandangolari, non amano. Ma io quella sorta di equilibrio che si crea così nelle immagini, le linee, la luce che entra nell’inquadratura, una sorta di piano medio cinematografico che crea una divisione e condivisione 50 e 50 tra spazio e figura umana, non lo capisco, mi fa venire l’ansia, comincio a sudare. Leonardo Mirabilia, il mio direttore della fotografia lo ha capito e mi ha regalato quella cosa in mezzo che non è né 8, né 12 mm, mi metteva solo lo zoom. E costringevo l’operatore a tenermi in cuffia e lo disorientavo dicendogli “destra, sinistra, giù, sopra, sopra, sopra, unghia, unghia, unghia!”.
Il rave come ambientazione. Non è solo inusuale e coraggioso, ma fotografa perfettamente tutte le contraddizioni raccontate dal film.
È un’enorme prigione dorata al cui interno hai una libertà totale. Pur essendo una storia universale, questa, non poteva in alcun modo avere un’altra location. Io poi sono particolarmente attento ai luoghi, agli animali, quasi ossessivo. Mi piaceva che Patagonia vivesse la sua storia di prigionia emotiva in un contesto di libertà assurda dove si viola una proprietà privata per ballarci sopra, in cui tutti dicono di essere liberi e lo fanno mentre sono schiavi di più dipendenze, ma rivendicano la loro indipendenza ballando. È una cerimonia, un rito collettivo eppure si celebra con droghe per lo più dissociative. Dimmi tu se c’è qualcosa di più affascinante e fertile.
Tutti questi contrasti in quel non luogo esplodono, convivono, hanno cittadinanza. Perché tutti noi abbiamo una gabbia e probabilmente libertà è solo essere consapevoli di dove sono le sbarre. Come fa Yuri, in fondo.
Perché ha girato in pellicola?
Per non annoiarmi e costringermi a scegliere. Il digitale rende tutto troppo facile, giri ore, fai troppi ciak e fai impazzire il montatore, il film lo vedi già sul set. Qui avevo dei giornalieri desaturati, il monitor serviva a poco e questo ha fatto sì che nelle varie fasi di sviluppo Patagonia abbia continuato a sorprendermi, a costringermi a fare delle scelte. E così sul set: non potevamo permetterci molti ciak e credo che ci abbia fatto bene per rendere quella relazione così viva, vera, per mettere a disagio lo spettatore e allo stesso tempo intrigarlo.
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