Un festival è una finestra sul mondo. E lo è, a suo modo, Toll, film particolare e potente. Che usa un casello autostradale come finestra sulla realtà, dove ogni persona deve spendere qualche secondo per pagare e l’addetto vede più visi, espressioni, sentimenti disegnati sui loro lineamenti in un giorno di quanti molti potrebbero vedere in un anno intero o addirittura in una vita. E ne subisce i comportamenti, finendo per ergersi a loro giudice e punitore.
L’intuizione “logistica” di Carolina Markowicz, alla sua opera seconda e già apprezzatissima l’anno scorso con Charcoal, thriller e black comedy di qualità, esordio dal quale si porta dietro la femomenale protagonista (Maeve Jinkings), è già un pezzo fondamentale dell’opera.
L’altra è usare la routine di una giornata e di uno dei tanti non luoghi industriali del Brasile, tanto lussureggiante e affascinante in alcuni scorci quanto punteggiato da raffinerie e complessi industriali di moderna bruttezza in altri, per ambientare una vicenda lacerante e alienante emotivamente, prima che lavorativamente..
Un’opera che trova una sua bizzarra e perfetta armonia tra argomenti lontani tra loro grazie al talento di molti e che così ha conquistato la giuria della Festa del Cinema di Roma 2023, che gli ha consegnato il primo premio (già a Toronto aveva ricevuto un riconoscimento destinato ai nuovi talenti e poi a San Sebastian, in Horizonte Latino aveva ottenuto molti consensi da pubblico e critica).
Toll (Pedagìo)
Cast: Maeve Jinkings, Kauan Alvarenga, Thomas Aquino, Aline Marta Maia, Isac Graça
Regista: Carolina Markowicz
Sceneggiatori: Carolina Markowicz
Durata: 102 minuti
Toll, la trama
Melodramma familiare e sentimentale dall’incedere curioso – giornate apparentemente tutte uguali si trasformano gradualmente e in modo imprevedibile -, Toll racconta la vita agra di Suellen, che fin dal nome è figlia di un sogno. Un sogno che ha provato a colonizzare lei e il suo popolo, un nome che non le corrisponde, una quotidianità che la schiaccia. Il lavoro la deprime, il compagno ruba e lo scopre nel modo peggiore, il figlio mette video sui social dopo averle rubato i trucchi e dando consigli per gli acquisti riguardanti make-up, ostentando un look decisamente eccentrico.
Lei, madre single e lavoratrice sfruttata, vuole cacciare il compagno e vuole far tornare eterosessuale il figlio, soffocata dalla ferocia altrui e dai giudizi di chi condivide quel video su whatsapp mentre vive un lavoro spersonalizzante, a un casello, che ne aliena mente e cuore.
Finirà per riaccogliere il ladro per farsi aiutare a pagare un esoso “corso di resignificazione bioenergetica” di uno dei tanti pastori santoni di quelle parti, per redimere il giovane 17enne e riconvertirlo alla virilità (cosa per cui, letteralmente, accende pure un cero: in un posto improbabile, alle 5 del mattino).
La recensione del film di Carolina Markowicz
Non è facile portare avanti una storia che voglia mostrarti un paese in un microcosmo apparentemente lontano dal cuore dello stesso. Un non luogo, appunto, come una stazione di pedaggio da cui si aprono nuove strade per altri non luoghi: la Rete, a cui accede il figlio della protagonista Antonio per affermare la propria identità, un pezzo d’autostrada dove si consumano crimini seriali, un’improbabile chiesa della “resignificazione bioenergetica”, trash come il compito che si è prefissa (curare tutti dall’omosessualità) e i suoi metodi, quella sirena scolpita nel giardino della chiesa omofoba (quale poi non lo è?), un paesaggio industriale, un fast food.
Tutti punti di convergenza di anime in pena, alla ricerca di certezze mentre annegano nei loro dubbi, o almeno di consolazione e affetto, magari sul ciglio dell’autostrada, tre volte al giorno.
Carolina Markowicz, regista di San Paolo, nel suo primo film aveva già dimostrato la sua dimestichezza nel giocare tra oscurità e leggerezza. Qui decide di mostrare uno spaccato inquietante della quotidianità brasiliana evidenziandone, drammaticamente, il lato grottesco. La religione, invadente, ipocrita, pacchiana; il rapporto con la sessualità e il machismo, distorto e parossistico; la piccola criminalità che diventa abitudine, raccontata con un uso sapiente degli stilemi di genere.
Il romanzo di formazione coloratissimo di Antonio, 17enne che sogna di essere felice e di diventare una star, magari una drag queen, si incastona in un Brasile che non ti aspetti, se non lo conosci, e girando attorno a una figura materna che le sbaglia quasi tutte, ma non riesce a non farsi amare. Merito anche di Maeve Jinkings che affida al suo personaggio tutto il suo talento, la fisicità nervosa che unisce sensualità e sofferenza, un’espressività che percorre i registri della durezza, del calore, del dolore, dell’ironia amara e di una seriosa e benevola riprovazione con irrisoria facilità.
E se a tutto questo aggiungi una capacità rara di comporre immagini di una fulgida – nel senso letterale – bellezza di Luis Armando Arteaga, quadri in movimento che cozzano contro lo squallore di vite, lavori, identità represse e depresse, allora puoi perdonare anche l’unico difetto di quest’opera quasi perfetta nel suo indipendente e coraggioso rigore, quella svolta di sceneggiatura paradossale e inutile, fuori scala rispetto all’armonia del resto del film, verso la fine del film. Quella che condiziona la vita dei protagonisti e che aveva bisogno di quel reato ma non di quella vittima illustre amante degli organi genitali riprodotti col pongo.
Intendiamoci, non che ci sia dispiaciuto. Anzi.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma