Immaginare quale possa essere la storia di un popolo e decidere di prendersene carico. Lo ha fatto Andrés Peyrot, cineasta svizzero-panamense nato nel 1986, messosi anni prima alla ricerca di una pellicola andata persa in God is a Woman, cercando di ritrovarla per risolvere l’enigma del “film scomparso” diretto dal documentarista premio Oscar Pierre Dominique Gaisseau. Immaginare anche di poter restituire un pezzo di storia e costumi di una cultura indigena, che ha alimentato un mito attorno a un fantomatico film che nessuno ha mai visto e che Peyrot rende esistente indagando con tenacia e grande discrezione.
Un excursus lungo più di dieci anni quello attraversato dall’autore, il cui risultato si aggiudica il ruolo di opera d’apertura della 38esima edizione della Settimana della critica. In cui la riflessione sul cinema trascende l’immagine e travalica lo spazio. In cui un’intera comunità potrà ritrovarsi specchiandosi nelle sequenze in movimento dei loro genitori, dei nonni, dei parenti e conoscenti che vennero filmati e fotografati la prima volta dal filmmaker francese. Un’operazione di cui Andrés Peyrot si prende la responsabilità, umana ed emotiva, presentata in anteprima mondiale all’80esima edizione della Mostra di Venezia.
Quella per God is a Woman è una passione che arriva da lontano…
Ci sono voluti dieci anni di lavoro. Più di dieci, forse. Da quando ho sentito per la prima volta questa storia a quando l’ho stesa, fino al cercare i diversi personaggi principali. Il racconto, poi, è arrivato dalla comunità. Ho incontrato i due fratelli che ho scelto come protagonisti ad un festival a Panama nel 2010. Siamo andati subito d’accordo, al punto che mi hanno invitato a conoscere la loro famiglia.
È in quel momento che sei venuto a conoscenza del film scomparso di Pierre Dominique Gaisseau?
Sì, presto è uscito il mito di questo film, che loro hanno vissuto come un gioco fin dal principio. Il filmmaker francese ha provato a riprenderli, ma non è andata bene. I soldi che aveva per la produzione sono finiti e la banca ha pignorato le bobine della pellicola. Da quel momento il film è stato avvolto dal mistero, sono nati diversi aneddoti e si è generata una vera e propria leggenda.
Che lei ha reso reale riuscendo a proiettare il film perduto per la comunità dei Kuna. Cosa ha significato vedere quelle persone finalmente davanti alla pellicola che cercavano da anni?
Era un momento che speravamo di filmare. Abbiamo lavorato tanto per poterci arrivare. C’era un’ottima energia, ma anche un po’ di agitazione, perché non sapevamo come sarebbe andata. Alla fine, è stato catartico. Si è trattato di confrontarsi con il mito, di ricordare, di ricevere risposte a eventi che, ad alcuni, erano stati solo tramandati. Ci sono persone che hanno rivisto vivere i loro genitori, i nonni, hanno visto il loro retaggio, di cui fino a quel giorno avevano solo sentito parlare. Ma era fondamentale anche riprendere il giorno dopo, il confronto: volevo cogliere le riflessioni che quel passato filmato e finalmente proiettato ha suscitato, andando oltre l’emozione.
Ritrovando anche un pezzo della loro storia, personale e collettiva.
Hanno potuto riempire un gap. Guardare una sequenza di immagini e di foto, in movimento tra l’altro, è di una nostalgia e rarità potente.
Che poi, i fratelli di cui sei diventato amico, sono gli stessi che a loro volta stavano girando un film durante le riprese.
Era come una bambola russa. Il documentario era arrivato su tutt’altro livello. Io, che li riprendevo con la camera, dovevo mettermi nella posizione di guardare chi, a proprio volta, sta guardando altro, cercando di realizzare il proprio film.
Come mai ha scelto come titolo God is a Woman, virando sulla parte più spirituale del documentario, e non sul concetto di memoria?
Era il titolo del film perso. Ho pensato sarebbe stato mistico utilizzarlo per il documentario, creando un doppio mito. Per la comunità, poi, è come se questo titolo, riferendosi alla vecchia pellicola, rappresentasse Hollywood. Inoltre ha un significato per la comunità, che mette da sempre la donna al centro. Non è una comunità prettamente matriarcale, ma ad esempio, quando una coppia si sposa, dopo il matrimonio si trasferisce a casa della madre.
Qual era l’elemento essenziale per God is a Woman?
Non volevo ci fosse una voce esterna. La storia doveva essere raccontata da loro. Dovevano riconoscersi loro stessi. Volevo che tutto fosse riportato secondo le loro parole. Questo ha permesso di restituire il miglior quadro possibile del popolo. Loro dovevano essere presenti, io ero un semplice strumento.
Cosa ha imparato dalla sua esperienza accanto ai Kuna?
È difficile pensare a una cosa sola. La sensazione più naturale, che mi hanno trasmesso fin dall’inizio, è la vicinanza che si può creare tra le persone, sia amiche che famigliari. È gente che ho intenzione di tenere nella mia vita, che voglio continuare a sentire, voglio invitarli a casa mia. Hanno un senso di comunità che fa comprendere a fondo cosa significa essere e avere una famiglia. Ci sono bambini che corrono per le strade liberi, si spostano di casa in casa, si conoscono tutti. C’è un’energia positiva. Ti fa capire come si sta davvero insieme.
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