Tutti a contare gli applausi – quanti minuti, che intensità – e nessuno a misurare le lacrime. Avanzo qui, in chiusura dell’ottantesima edizione della Mostra, una modesta proposta: serve un lacrimografo. (Lacrimometro no, non si può sentire e comunque non è una questione di misura, quando si parla di lacrime, ma di qualità dell’emozione).
Ho visto piangere incessantemente, a qualunque ora del giorno, spettatori comuni e scafati esponenti dell’industria addetti al commercio, giurati, critici anziani, critici cinici, critici smagati come sono spesso i più giovani, quelli a cui sembra che piaccia tutto, da quel che scrivono, e a cui non piace niente, da come parlano. Piangere alle otto del mattino è meno consueto che piangere al tramonto, dipende anche dal metabolismo, e invece singhiozzavano, in sala, appena svegli.
La densità emotiva di molti dei più bei film visti a Venezia, la commozione che sono stati in grado di suscitare, il livello di comprensione dell’altro, di immedesimazione e dunque di condivisione, il cuore in moto: questo, per costanza e continuità di pianto, mi è sembrato nuovo. Mi è parso anche che il pianto sia in qualche modo legato dal tasso di autenticità del racconto, dalla mancanza di artificio e di retorica, dall’adesione profonda, umana, personale, talvolta biografica dei registi e sceneggiatori all’oggetto della storia.
Quando Pablo Larrain, cileno, ritira il premio per la miglior sceneggiatura per El Conde, film su Pinochet, chiude il suo discorso – in inglese – nella sua lingua, invece. E con uno sbalzo termico formidabile dice, in spagnolo: “No a la impunidad”. Ecco questo, per esempio. Emozionare ed emozionarsi offrendo alla comprensione del pubblico una storia che ti riguarda, che hai vissuto prima di sapere che cosa avresti fatto nella vita e che infine restituisci: non è solo un film, è anche un film quello che hai fatto.
Nella mia personale cronologia il primo pianto collettivo a dirotto è stato per Dogman di Luc Besson, uno dei primi giorni di mostra alle otto del mattino, appunto. Trovo incomprensibile che non si sia premiato il protagonista, Caleb Landry Jones (nei panni di Edith Piaf e Marilyn Monroe poteva avere anche la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile), ma le scelte delle giurie sono sempre compromessi imperscrutabili, le giurie non si giudicano. Ne hanno parlato qui con parole esatte, editoriali scintillanti Boris Sollazzo, Alberto Crespi, Fabio Ferzetti, Ilaria Ravarino e gli altri bravissimi giovani cronisti della squadra di THR Roma, eravamo in ventidue, non ho niente da aggiungere che non abbiano già scritto.
Ma è del film di Agnieszka Holland, regista polacca, che vorrei dire. Unica regista premiata, con il suo Green Border – il confine verde, invisibile, nelle foreste malsane fra Polonia e Bielorussia – ha portato sullo schermo un pezzo di storia contemporanea, qualcosa che succede proprio qui accanto, a un passo da noi, e che ignoravamo, ignoriamo.
Lo ha fatto con la forza semplice della verità, con una potenza vitale e un’urgenza che ha tramortito i giurati (alcuni dei quali visti piangere in sala, appunto) veramente rare e diverse, per qualità, da altre prove pur ben eseguite sul tema delle migrazioni dei popoli, della ferocia che subiscono. “Qui, in Europa, la gente muore nei boschi. Cercano salvezza, rifugio, muoiono di fame. Non perché non possiamo aiutarli ma perché non vogliamo”. Perché non vogliamo, ha detto ritirando il premio. Speriamo che serva, questo premio. Che molti vedano il suo film. Speriamo che qualcosa cambi, anche questo fa il cinema. Cambia il mondo.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma