Anche a Venezia 80, quando si parla di abusi nel mondo del cinema, il primo problema è il titolo. Un giornalista che si occupa di cultura e che riporta le notizie della mostra, deve iniziare con l’impressionante lista di registi di quest’anno, tra cui Sofia Coppola, Ava DuVernay, David Fincher, Bradley Cooper e Yorgos Lanthimos, e di star – Emma Stone, Mark Ruffalo, Penélope Cruz, Adam Driver, Mads Mikkelsen – speculando, magari, su chi riuscirà o meno a venire al Lido durante il doppio sciopero di Hollywood? Oppure puntare ai click enfatizzando lo scandalo? Venezia 80 include nella programmazione ufficiale i nuovi film di Roman Polanski (The Palace), Woody Allen (Coup de chance) e Luc Besson (Dogman).
“Sono stato veramente combattuto, non sapendo se puntare sulle star o sulla polemica”, dice Eric Randolph, redattore di arte e lifestyle per la divisione inglese dell’agenzia di stampa internazionale Agence France-Presse (Afp). “Non riuscivo a decidere. Alla fine abbiamo optato per le star e abbiamo relegato Polanski e Allen al terzo paragrafo. Non so ancora se sia stata la cosa giusta da fare”.
Versioni di questa situazione si stanno verificando nelle redazioni di tutto il mondo. Un festival cinematografico di primo piano metterà in luce i lavori di tre dei registi più noti al mondo, tutti accusati di abusi. Come giornalista, qual è il titolo? Qual è la chiave di lettura: l’arte o lo scandalo? O entrambi?
Queste domande non sono nuove
Da quando il MeToo ha sconvolto i luoghi comuni di una generazione di reporter (per lo più maschi e per lo più bianchi), i dibattiti su cosa fare con l’arte di uomini “mostruosi” sono diventati comuni e si sono diffusi al di fuori delle riunioni di redazione, nelle cucine e nei salotti, fino alle battaglie di meme online e alle filippiche su TikTok. Spesso si sostiene, come ama ripetere il direttore della Mostra di Venezia Alberto Barbera, che bisogna “separare l’arte dall’artista”. Interrogato sui precedenti penali di Polanski – il regista ha ammesso di aver violentato la tredicenne Samantha Geimer nel 1977 – Barbera ama paragonarlo al pittore italiano Caravaggio, assassino condannato e artista barocco universalmente celebrato. “Non voglio giudicare l’uomo. Sono un direttore di festival. Io giudico la qualità dei film”, dice Barbera.
Ma Caravaggio è morto nel 1610. Il problema di cosa chiedergli alla conferenza stampa di Venezia 80 o di come reagiranno le sue vittime quando leggeranno una recensione entusiasta del suo nuovo capolavoro, non si pone. Le donne che hanno accusato Polanski, Allen e Besson di abusi sono ancora vive. Scegliere di ignorare le accuse e concentrarsi sui film può sembrare una scelta di parte. “Il solo fatto di ospitare questi uomini ai festival sembra una celebrazione dei colpevoli, ad essere sinceri”, dice dice Ursula Le Menn, un’attivista del gruppo francese Osez le Féminisme (Osa essere femminista) che a maggio ha chiesto di boicottare il Festival di Cannes per protestare contro il film di apertura, Jeanne du Barry con Johnny Depp, accusato di aver commesso abusi (Depp ha negato tutte le accuse).
Seguendo la linea dei festival di separare l’arte dall’artista, sostiene Le Menn, i giornalisti di cultura possono diventare “una sorta di testimoni della difesa, perché ripetono le dichiarazioni che i festival rilasciano per mettere questi uomini in buona luce. Così Barbera parla di come Samantha Geimer abbia perdonato Polanski, ma non parla delle altre accuse contro di lui (diverse donne si sono fatte avanti con accuse di abusi sessuali contro il regista ottantanovenne, che lui nega). Oppure dice che Besson è stato dichiarato non colpevole nel suo caso di stupro, il che è semplicemente falso. Non è mai stato processato, quindi come potrebbe essere giudicato colpevole o non colpevole?”.
Il caso Besson
A giugno, la massima corte d’appello francese ha respinto la richiesta dell’attrice belga-olandese Sand Van Roy di riaprire la denuncia di stupro contro Besson, accusato di averla aggredita nel maggio 2018. La polizia ha indagato e scagionato Besson da tutte le accuse. Almeno altre tre donne hanno presentato accuse di molestie sessuali contro di lui, che ha negato. Nel caso di Allen, le affermazioni secondo cui sarebbe stato dichiarato “innocente” sono altrettanto inesatte. La figlia adottiva, Dylan Farrow, ha affermato che il regista l’avrebbe molestata sessualmente nel 1992, quando lei aveva 7 anni. Il pubblico ministero ha rifiutato di sporgere denuncia contro Allen per risparmiare alla bambina un processo, anche se ha detto che esistevano prove sufficienti. Allen ha sempre negato le accuse.
Le Menn sostiene che ai giornalisti sfugge la vera storia di un sistema legale che raramente consegna i colpevoli alla giustizia. “I resoconti su questi registi dovrebbero includere le accuse contro di loro, ma in modo equo ed equilibrato, senza limitarsi a ripetere le argomentazioni della difesa e a incolpare le vittime”, afferma la giornalista. Ma è giusto fare delle accuse di abusi la cornice di ogni storia su questi registi? È giusto ed equilibrato anche solo accomunare questo trio – Polanski, Allen e Besson – sotto lo stesso titolo, date le differenze nelle accuse e nelle prove legali contro di loro?
“Penso che potrebbe essere potenzialmente pericoloso, se si hanno A, Polanski, un condannato per reati sessuali, e B e C, due uomini che non sono mai stati accusati di un crimine, e li si getta nella stessa zuppa del MeToo. Potrebbe essere potenzialmente diffamatorio, come se si deducesse che le accuse contro di loro sono equivalenti”, sostiene Andrew Knight, professore alla London School of Journalism. “C’è anche la possibilità di ribadire e ripetere affermazioni che sono state costantemente smentite”.
Le proteste? Sono un fatto concreto
Un racconto di questo tipo, tuttavia, potrebbe essere giustificato da un chiaro interesse pubblico o dal valore informativo, sostiene Knight. “Diciamo che ci sono manifestanti fuori dal cinema o minacce alla sicurezza del festival a causa di questi uomini. Allora la protesta è qualcosa di effettivamente concreto. Naturalmente, uno dei problemi, soprattutto con le persone che protestano sui social media, è che potrebbero non essere ben informate e fare le stesse affermazioni non documentate e potenzialmente diffamatorie”.
Aggiunge il giornalista Randolph: “Una delle cose che mi preoccupano di più è che il modo in cui questi problemi vengono discussi, la natura del discorso che li circonda online, è quasi altrettanto tossico e socialmente dannoso quanto i problemi che la discussione sta cercando in primo luogo di combattere. Nessuno vuole che la propria copertura mediatica sia guidata dai troll, ma il problema, come giornalista, è che è diventato sempre più difficile trovare modi interessanti per affrontare questi argomenti. Sembra che stiamo solo gettando sempre più benzina sul fuoco di queste battaglie online”.
Randolph, che ha seguito da vicino il movimento MeToo, osserva che i reportage “importanti e rilevanti” dell’Afp su “cose come l’istituzione da parte dei festival di commissioni di valutazione per affrontare le accuse di molestie, o di linee dedicate per le denunce telefoniche, cose concrete che mirano a contribuire al cambiamento istituzionale” sono per lo più ignorate. “Ma se si pubblica un articolo su un film di Johnny Depp che apre Cannes, boom!”. Quindi i giornalisti dovrebbero trascurare queste voci e negare ai presunti colpevoli la possibilità di farsi pubblicità?
Ma sono buoni film o no?
“Penso che il silenzio sia peggio, in realtà”, prosegue l’attivista Le Menn. “Per me, il fatto che i festival scelgano questi registi dimostra che hanno un’agenda politica che minimizza l’importanza e il significato della violenza sessuale in questa industria e nella nostra società. Quindi non sto chiedendo di smettere di parlarne, ma di farlo in modo più equilibrato, un modo che includa la voce delle vittime”. Per il critico culturale britannico Jo Livingstone, l’idea di vietare o boicottare i servizi sui film di “uomini mostruosi” è “veramente inutile perché è proprio l’opposto dell’apprezzamento acritico”. Invece, il giornalismo culturale dovrebbe tornare a concentrarsi sulla cultura che viene presentata, sui film stessi.
“Non ho visto nessuno di questi film, né Polanski, né Allen, né Besson, ma dai trailer e dagli spezzoni disponibili online, nessuno di loro sembra un film terribilmente eccitante”, afferma Livingstone. “Quindi forse la discussione che dovremmo fare è perché un festival come Venezia decide di celebrare questi registi caduti in disgrazia o per tre quarti caduti in disgrazia o per cinque sesti, quando è chiaro che non si tratta di nulla di simile ai loro lavori migliori”. Randolph è d’accordo. “Penso davvero che una storia migliore su Woody Allen sarebbe: perché Woody Allen non è riuscito a fare un buon film in 20 anni?”.
Il “culto dell’autore”
Per Livingstone, riportare l’attenzione di critici e giornalisti sui film e non sui registi non è un argomento per separare l’arte dall’artista, ma un modo per riprendersi il potere dai registi, per sovvertire il “culto dell’autore” che mette il regista al centro di ogni discussione sul suo lavoro. “Penso davvero che il nostro lavoro debba essere quello di dare la priorità e concentrare l’attenzione sulle idee migliori nei film migliori e più interessanti che vediamo, e non dare a persone già famose un trattamento speciale, sia positivo che negativo. Non mi interessa cosa ha fatto il regista. Se il suo film fa schifo, perché dovremmo occuparci di lui?”.
Traduzione di Pietro Cecioni
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