In Comandante, il dramma italiano del regista Edoardo De Angelis ambientato durante la seconda guerra mondiale che ha aperto quest’anno la Mostra del Cinema, un capitano di sommergibile, interpretato da Pierfrancesco Favino, sfida gli ordini dei suoi superiori fascisti per salvare 26 marinai belgi dalla morte in mare. Per spiegare il suo gesto, dice semplicemente: “Siamo italiani”. Ripete la spiegazione più volte. Gli italiani non lasciano annegare gli innocenti. Il messaggio non è certo sottile, e a pochi italiani sfuggirà il punto del regista, che traccia un netto contrasto tra questo eroe di guerra del passato italiano e l’attuale governo di estrema destra del paese, con la sua feroce politica anti-migranti.
Sandro Veronesi, che ha scritto la sceneggiatura di Comandante insieme a De Angelis, ha detto che il film è nato come risposta diretta alle politiche del governo italiano del 2019, quando l’allora ministro dell’interno Matteo Salvini ha sostanzialmente dichiarato guerra alle organizzazioni non governative che cercano di salvare i migranti che annegano in mare, chiudendo i porti italiani alle navi di salvataggio e minacciando i soccorritori di multe e processi penali.
“È stata una vergogna, ignorava la regola più elementare del mare: quella di soccorrere chi ne ha bisogno. Non volevo farne parte”, dice Veronesi, che definisce Comandante una storia “che ci restituisce l’onore che stavamo perdendo, tra slogan politici irripetibili e social media che pullulano di cose putride”.
Veronesi non parla direttamente di lui, ma Salvini, attuale ministro delle infrastrutture italiano, era presente in sala alla prima di Comandante mercoledì 30 agosto, contribuendo a rendere inevitabile il legame tra cinema e politica.
Cinema e politica a Venezia
Un legame ancora più diretto è presente in due film in concorso a Venezia: Io Capitano di Matteo Garrone, che segue il viaggio di due adolescenti senegalesi che cercano di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Italia, e il lungometraggio polacco The Green Border di Agnieszka Holland. Il film di Holland mette in scena la situazione dei migranti provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente, attirati al confine tra Bielorussia e Polonia dalla propaganda che prometteva un facile passaggio nell’Unione Europea. Invece, sono diventati pedine di un gioco geopolitico quando il governo polacco ha dato un giro di vite, lasciandoli bloccati e affamati nelle paludose e pericolose foreste tra i due paesi.
“È una zona proibita, una zona di paura e una zona di morte”, dice Holland. “La situazione è molto pericolosa per il futuro dell’Europa perché, se accettiamo questa violenza come risposta ai problemi politici, se dimentichiamo i diritti degli esseri umani solo perché sono ‘illegali’ o neri o altro, il passo successivo sarà ucciderli. Ho fatto tre film sull’Olocausto (Europa Europa, In Darkness, L’ombra di Stalin), e so quanto sia facile oltrepassare il punto di non ritorno, dove la violenza non fa che moltiplicarsi”.
Una nuova consapevolezza
Nel loro insieme, i film suggeriscono un cambiamento nel modo in cui i registi europei affrontano la crisi dei migranti. Si è passati dall’analisi della situazione dei migranti che si trovano già in Europa – si veda The Old Oak di Ken Loach o Tori e Lokita dei fratelli Dardenne – a quella di chi si ritrova bloccato ai confini, nel disperato tentativo di entrare. Mentre le notizie sulla crisi dei migranti conquistano sempre meno titoli di giornale, queste nuove pellicole ricordano le migliaia di persone che ancora soffrono e muoiono ai confini della fortezza Europa.
“Non ho soluzioni per i problemi della migrazione globale, ma penso che dobbiamo affrontare il problema e discuterne, per cercare le vere soluzioni”, dice Holland, “e non adottare la soluzione dello struzzo che mette la testa sotto la sabbia, che pensa che impedendo ai barconi o alle persone di arrivare sulle nostre coste, abbiamo risolto il problema”.
Traduzione di Nadia Cazzaniga
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