C’è un luogo in cui è l’abito che fa il monaco. Forse non nella vita, ma al cinema di certo. I pantaloni Capri di Sabrina, lo smoking di 007, il gioiello serpente al braccio di Cleopatra, il cappello di Indiana Jones, le tute rosse della Casa di Carta. Al cinema diventi il costume, i gioielli, le scarpe il cappello la parrucca, il trucco che hai. Costruire un personaggio è anche questo. Oggi si usa dire, con parola consumata, diventare un’icona. Se hai un abito da principessa, o da mendicante, diventi principessa o mendicante. Incarni la maschera, è lei che ti trasforma.
Questa rivista indossa un abito di Valentino. Che fierezza, che responsabilità. Pier Paolo Piccioli, direttore creativo della Maison, ha messo un mantello rosa – il suo Pink – alla copertina e ha trasformato una foto d’epoca in un’istantanea del presente. È così: un abito può sedurre e confondere anche il tempo, giocare a nascondino con la morte. Siamo partiti dai sogni, e questa di come nascono le cose è una storia così bella che bisogna raccontarla.
Di che si tratta?, mi ha domandato lui. Di cinema, di sogni. È un numero monografico fuori commercio, è una rivista che sogna di diventare libro, è un omaggio alle ottanta edizioni della Mostra del Cinema e insieme alla storia di The Hollywood Reporter, che ha cento anni ed è stata qui, a Venezia, dal principio. È il racconto di come tutto ciò che è accaduto sia la genesi di quel che accade e accadrà: siamo, a volte inconsapevolmente, gli eredi di quelli che sono stati prima di noi e siamo padri di coloro che verranno.
Quindi è il racconto di tanti passaggi di testimone: parlano i grandi del Novecento, i fuoriclasse, poi i loro figli, di sangue e d’arte, Sergio e Raffaella Leone per esempio, la sai la storia di C’era una volta in America che fu tagliato di quasi un’ora per “esigenze di mercato” – antenate dell’algoritmo – e che dunque lui, il regista, non vide mai? La figlia racconta qui che lavora, produce cinema, per vendicare e risarcire quel dolore, in qualche modo. Infine i ragazzi che oggi, in classe, si ispirano ciascuno al suo maestro e studiano le forme del mondo che verrà: la realtà aumentata, l’intelligenza artificiale, la dimensione virtuale. Dentro c’è dappertutto Venezia, il cielo sopra Venezia, c’è il red carpet e la storia di come la moda e il cinema si siano sempre parlati definendosi a vicenda, on stage, e ci sono i mestieri che non sfilano sul tappeto rosso ma rendono possibile che il cinema esista, il backstage. Questi in corsivo (nella lingua parlata: parole dette con enfasi) sono i titoli dei capitoli – gli ho raccontato mentre sfogliavo mentalmente le bozze.
La materia (del lido) dei sogni
Bello, ma quali sogni? Ha chiesto PPP, tornando al principio del mio entusiasmo. Allora mi sono ricordata che con Daniela Amenta, folletto punk che da quando ho memoria fa giornali danzando fra musica immagini e parole – ha curato lei questo numero – ci eravamo fatte all’inizio la stessa domanda. Quali sogni abbiamo scelto, infine, fra mille? Li abbiamo nominati, scritti. Ho ritrovato l’elenco, gliel’ho letto. C’è Giuliano Montaldo e i sogni di due anarchici, il sogno di Frederick Wiseman di fare della realtà un cinema, il sogno del tempo di Liliana Cavani che da ultimo chiede al fisico Carlo Rovelli la stele di Rosetta per decifrarlo, ma il tempo non esiste. Il sogno di fare pace coi sogni di Marco Bellocchio, i sogni di rivoluzione di Susan Sarandon, i sogni visionari di Oliver Stone, quelli degli elfi di Cate Blanchett, il sogno di eterna bellezza di Sofia Loren e quello di Diego Dalla Palma, che ha sognato di usare il trucco per trasformare il dolore in bellezza – un sogno magnifico, il mio preferito.
C’è Pier Paolo Pasolini che sognava la Callas mentre Maria Callas sognava che lui la desiderasse, invano desiderandolo. I sogni incubi di Dario Argento Ari Aster e Luca Guadagnino, uno dopo l’altro, quelli di Alberto Barbera fin da quando era bambino in un cinemino di Occhieppo Inferiore, quelli dei grandi critici che hanno scritto la storia del cinema, i sogni di far camminare le donne in un museo, coi tacchi ma senza far rumore, i bar aperti fino all’alba frequentati da Orson Welles, Winston Churchill, Brigitte Bardot, Peggy Guggenheim e Giancolombo che faceva loro le foto. Nuotate all’alba e al tramonto, sogni in bianco e nero e technicolor. Infine il sogno dell’intelligenza artificiale, San Servolo che era l’isola dei matti e che oggi ospita chi sogna la nuova follia, la realtà virtuale. I sogni dei vecchi e dei ragazzi. Il rosso della sera che diventa il rosa dell’alba, il viola della protesta, il giallo del sole che è bello e terribile, il blu dei pensieri, il verde di domani. I colori.
La rivolta del mondo dell’arte
PPP ha fatto silenzio poi ha detto “vieni, lavoriamo da casa”.
Sono entrata nella vita quotidiana della sua magnifica famiglia, una mattina d’estate, portando la foto di Dalì in una borsa di carta, ne usciva un pezzo gualcito. “Non proprio una missione della Nasa”, abbiamo riso. Mi ha raccontato di quando aveva dimenticato il book, a un colloquio di lavoro, lo ha rifatto con acqua e cenere la sera prima.
Allora vediamo, perché Dalì – ha domandato stendendo la foto su un tavolo di maioliche, il vento faceva volare il foglio. Lo ha fermato con due sassi. Perché Dalì è il più grande tra i sognatori. Perché anche chi non lo conosce, i più giovani forse non sanno chi sia, conosce tuttavia la maschera della Casa di Carta, la serie. Sai, i rapinatori che assaltano la banca per una causa diciamo pure giusta, per ribellione al Sistema, il capitalismo che affama i più deboli. Un attimo, e si parlava dello sciopero di Hollywood. Le cronache dall’America raccontano di attori e maestranze di celebri popolarissime serie tv che dormono in auto, hai letto?, ricevono assegni in centesimi, non hanno assistenza sanitaria. I contratti si fanno a chi ha già un contratto, perché nessuno tra i datori di lavoro vuole essere l’unico responsabile della possibilità di resistere in vita per qualcun altro. Lavora chi ha già un lavoro, che paradosso, chi non ha nulla nulla avrà. Le star solidarizzano, perché la causa è giusta. In Italia Marta Donzelli, direttrice della più importante scuola di cinema, il Centro Sperimentale di Cinematografia, si dimette sovrastata dalle pressioni politiche. Il mondo dell’arte è in rivolta. Da molti decenni a questa parte il Sistema è di nuovo messo in dubbio.
Sì, certo. So bene. Quindi Dalì è questo. La persona e la sua maschera. L’uomo e il simbolo – ha detto fra sé. E che cos’è che ha determinato allora, nel secolo scorso, e ancora oggi definisce il rovesciamento di senso? Le parole. Sono le parole a definire la direzione delle cose. Basta sovvertirne l’ordine. Così abbiamo scelto cento parole, tutte contenute nelle interviste e nei racconti del volume a partire dal titolo, Il Lido dei Sogni. E poi Buongiorno Marco Eros Incubo Cielo Intelligenza Talento Fragile Intimacy coordinator Anima Ribelle Maestro. Pier Paolo le ha fatte girare, in un programma che ha nel telefono, e disordinandosi sono diventate poesie. Meno si definiva il senso, più evocavano qualcosa. Meno si capiva, più si sentiva. Bisogna che non si leggano – ha detto. Bisogna che abbiano il senso che ognuno vuole dargli. Proviamo.
Dalì e l’abito di Valentino
Così ha preso una tavolozza di acquarelli – erano nuovi, non si aprivano, sarebbe stato meglio avere quelli usati ma non si trovavano, non è mai una missione della Nasa– e ha disegnato il mantello che vedete in copertina. Un abito rosa da supereroi, che porta il tempo fuori dal tempo. Ha usato dell’acqua, alla fine, perché anche quello che forse si leggeva ancora si leggesse un po’ meno. Quasi per niente.
È andata così che abbiamo avuto un abito Valentino. Ci sono volute molte e molte ore, non crediate. Altre ancora sarebbero state necessarie, per avere in purezza quel che lui aveva immaginato ma il meglio è nemico del bene, e poi si era fatto buio, c’era la luna rossa, la giornata era finita. Ogni cosa è quel che è mentre è. Ci sono stati mirabolanti racconti, prima della fine, sulle volte in cui la realtà ha aspettato che l’immaginazione arrivasse da lei: di una in Messico, nel deserto, mi ricordo in specie. La racconteremo un’altra volta. Ma anche la storia di questa foto nuda, quella che vedete al principio di questo racconto, è un sogno. C’è stato un grande fotografo, Graziano Arici – oggi vive ritirato, ad Arles – che dopo aver lavorato con Emilio Vedova, Luigi Nono, coi grandi della sua città, Venezia, e del suo tempo ha deciso di catalogare, fare archivio e basta. Ha comprato migliaia di negativi destinati al macero, i nomi degli autori degli scatti non erano indicati. “Era un tempo in cui i fotografi, se non erano star, non avevano diritto al nome”, mi ha detto al telefono mentre mi spiegava che Arici ha l’accento sulla A. E’ una famiglia, la sua, partita forse dall’Andalusia, passata per la Turchia, arrivata per mare a Venezia. Migranti, come tanti oggi. E insomma in questo fondo ritrovato e salvato c’era anche Dalì: 1961, in gondola. “Sono felice che possa vivere ancora”, ha detto: “Era quel che sognavo”.
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Avrei così tante persone da ringraziare, per aver realizzato il libro dei sogni. Tutti quelli che ci hanno lavorato, tutti quelli che hanno raccontato. THR Roma, noi, prendiamo da quest’anno il timone dell’avventura editoriale che disegna un triangolo fra Los Angeles, quindi Hollywood, Roma, in Italia la capitale del cinema, e Venezia, la capitale dell’arte. Un ponte circolare, che si percorre mille volte al minuto in andata e ritorno e che si estende al Giappone, THR Japan), presto ad altri sterminati territori di mondo. Che bellezza, che responsabilità – di nuovo. Siate ringraziati tutti. Per primi voi che avete tra le mani questo numero da collezione e qualcosa di vostro forse ci troverete, leggendolo. E’ una storia che arriva da lontano. “Ricorderemo il mondo attraverso il cinema”, ha detto Bernardo Bertolucci. Attraverso il cinema lo scriveremo.
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