Bisogna immaginare di poter di nuovo sedersi in sala e vedere con occhi “vergini” il rotolare di un tumbleweed attraverso le strade di Los Angeles, fino alla riva al mare, mentre la voce di un cowboy annuncia che “alle volte si incontra un uomo”… E quell’uomo è il “Drugo”, the dude, Jeffrey Lebowski. Incontrare l’ “eroe” in questione (Jeff Bridges) in un supermarket dove avvolto in una vestaglia, seppiette da spiaggia ai piedi e occhiali da sole sta comprando del latte, per poi tornare a casa dove viene aggredito da un gruppo di “nichilisti” che gli chiedono dove abbia nascosto i soldi – quali soldi? – lo malmenano e fanno pipì sul suo tappeto – che “dava un tono all’ambiente”. Il tappeto di Jeffrey Lebowski, fra i più grandi MacGuffin della storia del cinema, motore del film che ora “esplode” davanti ai nostri occhi con dei titoli di testa in forma di musical in una sala da bowling, in sottofondo The Man in Me di Bob Dylan.
Succedeva 25 anni fa: stavamo per assistere, con le parole del cowboy senza nome interpretato da Sam Elliot, alla storia di Drugo. Al Grande Lebowski, settimo film dei fratelli Joel e Ethan Coen, una commedia noir, o un noir in forma di commedia, di certo un fenomeno di culto su cui da allora sono state scritte decine di libri, ha ispirato un (malriuscito) spin off di John Turturro, che ogni anno è celebrato da convention in tutto il mondo e ha perfino generato un ironico culto: il dudeismo, la Chiesa del Drugo degli ultimi giorni.
Tiepida Sundance
Ma non era cominciata così: negli Stati Uniti, al Sundance del 1998 dove ha debuttato, il film aveva avuto un’accoglienza tiepida. E’ in Europa – a partire dalla Berlinale dove venne proiettato circa un mese dopo – che Il grande Lebowski cominciò a suscitare un grande entusiasmo, come hanno poi raccontato gli stessi Coen di ritorno a Berlino più di dieci anni dopo con True Grit. Un entusiasmo che, si scherniscono i fratelli, “ha raggiunto picchi ridicoli”, ma che in verità tiene insieme una variegata comunità di persone che da un continente all’altro hanno sviluppato una forma di amore speciale per personaggi e battute straordinarie.
Da Reddit a Facebook, gruppi di “appreciation” del film pullulano di utenti che ogni sabato si augurano un buon Shabbath citando il più grande personaggio del film – Walter, il migliore amico di Drugo interpretato da John Goodman e ossessionato dal Vietnam, dall’ex moglie Cynthia e dalla propria conversione all’ebraismo – e che ogni nove del mese si ricordano che l’indomani è già il dieci (come fa il padrone di casa del Drugo sperando di vedersi corrisposto un affitto che non arriva mai).
Oppure ammoniscono su “cosa succede quando cerchi di fottere chi non conosci”, come fa Walter distruggendo con una mazza la corvette di un ragazzino, Larry, che sospetta di aver rubato dei soldi. Battuta che nella versione originale – “You see what happens, Larry, when you fuck a stranger in the ass” – è un fenomeno di culto a sé poiché nella versione censurata televisiva è stata trasformata in “find a stranger in the Alps”, locuzione insensata che ha poi dato anche il titolo a un album del 2017 della cantautrice Phoebe Bridgers.
Lebowski hard boiled
I soldi sono quelli del riscatto per Bunny, giovane moglie del miliardario Jeffrey Lebowski, dalla cui omonimia con il protagonista scaturisce una trama di cui è impossibile – nonché inutile – rendere conto: la storia, come hanno spiegato i Coen, non è che un pretesto per dare vita e forma a dei personaggi e a delle dinamiche, un omaggio alle trame impossibili e complessissime dell’hard boiled letterario da Dashiel Hammett a Raymond Chandler. Soprattutto quest’ultimo, il suo detective Marlowe di cui Jeffrey Lebowski è un epigono svogliato, appassionato di White Russian, bowling, dei Creedence, la cannabis “e un trip d’acido quando capita”.
Il grande Lebowski recepisce anche la caratteristica “allucinatoria” (Leonardo Gandini) del noir cinematografico in cui il passato, un passato oscuro, incombe sui personaggi come un destino ineludibile.
Qui è l’allucinazione “bonaria” del perenne stato di alterazione del protagonista, deliberato o indotto contro il volere di Drugo, come quando viene drogato dal pornografo Jackie Treehorn (Ben Gazzara) per estorcergli la verità sui soldi scomparsi. Sequenza che culmina – in un film che è anche e soprattutto una rielaborazione dei grandi generi dell’età dell’oro di Hollywood – in un omaggio alle coreografie musical di Busby Berkeley, con tanto di soggettiva di una palla da bowling scagliata contro i birilli.
Il cuore malinconico del Drugo
Fra le sue luci al neon, personaggi indimenticabili – fra cui occorre ricordare anche il Jesus di John Turturro, il Donnie di Steve Buscemi, la Maude di Julianne Moore e il Brandt di Philip Seymour Hoffman – e valigette piene di mutande di Walter anziché di dollari, Il grande Lebowski nasconde anche un cuore malinconico, l’accenno di un male, una nostalgia e un’innocenza perduta. Che sia l’innocenza dei generi classici del cinema hollywoodiano o del passato da attivista di Drugo (che sostiene di essere uno degli estensori della Dichiarazione di Port Huron), mentre nel presente del film – ambientato durante la prima guerra in Iraq – nei suoi incubi Saddam gli porge le scarpe da bowling.
Da ieri, Il grande Lebowski è tornato in sala per festeggiare il suo quarto di secolo, completamente restaurato in 4K per iniziativa della Cineteca di Bologna.
Venticinque anni dopo, possiamo di nuovo sederci al cinema mentre il cowboy ci racconta che , nonostante non abbia “mai visto la regina in mutande, come dicono alcuni”. “Alle volte c’è un uomo”, di cui vale la pena raccontare la storia. Quell’uomo è il Drugo.
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