Arrivederci ragazzi, un saluto contro l’abisso

Il finale del capolavoro di Louis Malle del 1987: l'addio appena accennato ai ragazzi ebrei trascinati via dai nazisti, la delicatezza di un gesto a fronte dell'orrore della Shoah

Un saluto furtivo, la paura, l’esitazione: la scopriamo sempre troppo tardi la santità, ci sembra dire Louis Malle nel finale di Arrivederci ragazzi (Au revoir les enfants), il suo capolavoro del 1987, vincitore quello stesso anno del Leone d’oro a Venezia. Erano appunto dei ragazzi, al collegio dei carmelitani scalzi di Fontainebleau, raccontati con estrema delicatezza dal regista di Ascensore per il patibolo (1958) e di Zazie nel metrò (1960) e tanti anni dopo di Pretty Baby (1978) mentre sui loro volti affiora come un lampo l’indicibile orrore della Shoah. E’ la poesia dei piccoli gesti l’antidoto più forte contro l’abisso, l’umanità che affiora e si oppone alla sopraffazione, alle barbarie.

Un ragazzo di nome Kippelstein

Com’è noto, c’è una radice autobiografica in Arrivederci ragazzi: Malle aveva studiato anche lui in un collegio di carmelitani scalzi, anche lui aveva vissuto qualcosa di analogo a quel che racconterà, tanti anni dopo, il suo film. Francia, 1944: la storia è quella di Julien, e della sua amicizia con Jean, che suona bene il pianoforte, ma riservato e misterioso. Il quale Julien scoprirà che il vero cognome di Jean è Kippelstein. L’amico è un adolescente ebreo, che sotto falso nome aveva cercato rifugio nel collegio per sfuggire alle persecuzioni razziali.

Louis Malle e la poesia dei gesti

Per infelicità e rabbia, un altro ragazzo farà la spia presso gli occupanti nazisti, e malgrado i tentativi dei sacerdoti di salvarli, Jean, altri due ebrei ed il direttore del collegio vengono portati via. Si respira nell’aria la certezza che i quattro stanno andando verso la morte. L’ultimo cenno, l’ultimo saluto di Julien, e un sacerdote che dice, appunto, “Arrivederci ragazzi”, sono il loro epitaffio. Noi lo sappiamo, ce lo dice il narratore, che i ragazzi moriranno ad Auschwitz ed il direttore a Gusen, sottocampo di Mauthausen, chiamato dagli stessi deportati “l’inferno degli inferni”.

Un film fatto di ricordi, di piccoli gesti, di immagini delicate e potenti: è in quel saluto appena accennato la chiave del capolavoro di Malle, la capacità di raccontare con la poesia dei gesti l’equilibrio dell’umanità sull’orlo dell’abisso.