Emanuele Crialese, 58 anni, regista del film di culto Respiro (2002, Gran Prix a La Semaine de la Critique di Cannes) è nato a Roma da genitori siciliani, ha studiato alla New York University, ha esordito con Once we were strangers nel 1997. A quel punto la sua identità era già mutata al maschile, da Emanuela in Emanuele.
Respiro ha trionfato in Francia e poi nel mondo, quattro anni dopo è uscito Nuovomondo (2006, Leone d’argento Rivelazione a Venezia) nel 2011 Terraferma (Gran premio della Giuria, Leone d’argento a Venezia). Poi dieci anni di silenzio, fino a qui.
Torna con L’Immensità, (2022), in cui racconta la storia autobiografica di un bambino che non si sente di appartenere al genere assegnato alla nascita nella Roma degli anni Settanta. La madre è una magnifica Penelope Cruz, il padre il suo attore-feticcio, Vincenzo Amato. L’immensità è uscito negli Stati Uniti pochi giorni fa, dopo essere passato dal Sundance Festival. Conquista ogni giorno nuove sale, pubblico e critica.
E’ un film che prende origine dalla sua storia personale.
Lo sguardo della protagonista è il mio. È il mio tema, l’identità di genere. È la mia storia. Ma ho fatto un film, appunto. Tutto il resto è cornice, colore, morbosità. Un modo facile e provinciale per catturare l’attenzione sulle pagine dei giornali. Se avessi voluto farmi pubblicità avrei cavalcato certamente l’onda della trasgressione. Ma ho deciso di lavorare dietro la macchina da presa, non davanti. Racconto e metto in scena immagini, dirigo attori. Questo faccio e questo vorrei continuare a fare, a essere.
Non è stato facile, ripete spesso. In che senso?
No, non è stato facile comunicare questa semplice cosa. Ma il tema dei diritti negati, di questa fobia che pare stia contagiando il mondo, lo voglio affrontare, lo affronterò in altro contesto. C’è molto da dire, molto su cui riflettere. Un film non può bastare. Viviamo in un clima politico che cerca nemici e target facili da colpire, spara alla cieca su obiettivi che sono semplici “diversivi”, minacce sociali inesistenti: NOI.
I problemi sono ben altri e si vuole guardare altrove pur di non fermarsi e guardarsi dentro. Il nemico è dentro e non fuori. Il nemico è la paura. È indurre alla paura. Ma le minacce sono ben altre. Ho creduto fosse urgente parlare di migranti nei miei film precedenti. Il coraggio ed il diritto di andare altrove, di cercare una vita migliore, di trovare un modo pacifico di convivere accogliendo l’alterità come parte fondante e vitale del genere unico a cui tutti apparteniamo che si chiama “genere umano”.
A guardarci da un altro pianeta, con gli occhi di un alieno si direbbe che ci stiamo comportando come un virus mortale e inarrestabile. Ci distruggiamo tra di noi. Stiamo distruggendo la casa in cui vivranno i nostri figli. Ecco la minaccia. Guardarsi dentro è tentare di cambiare individualmente, invece di voler cambiare gli altri. Liberarsi dalla dipendenza di voler dominare sull’altro, di resistere alla compulsione dell’avere, dell’apparire, e forse provare a concentrarsi un po’ di più sull’essere. Abbandonare le classificazioni di genere, razza, orientamenti sessuali, perché non ci definiscono, ci limitano piuttosto, creano barriere divisive, noi siamo quello che siamo in perenne mutamento e l’umana natura è appunto imprevedibile e immensa.
Siamo di più dei nomi classificatori che ci assegniamo per riconoscerci. Ed è arrivato il momento in cui bisogna inventare qualche nuova parola se vogliamo comunicare nel nuovo mondo in cui già stiamo vivendo. Dostoevskij ha scritto “fare un nuovo passo, dire una nuova parola, è ciò che la gente teme di più”.
Torniamo al film. La storia di una bambina di dodici anni che non si riconosce nel suo genere. Si innamora di una coetanea. Ha due fratelli minori, una madre straniera, spagnola, un padre siciliano, maschilista e dispotico. Siamo a Roma, negli anni Settanta.
Ecco. Siamo negli anni Settanta. Bisogna ricordarseli gli anni Settanta. Li ho ricostruiti per come li ho vissuti, per come li ricordo. Un quartiere in costruzione, in un luogo che potrebbe essere qualunque luogo, edifici di lusso che confinano con un campo di operai e famiglie venute dal Sud Italia al limitare del cantiere. La vita dentro, la vita fuori. Una famiglia della media borghesia tradizionale, una coppia in crisi, un uomo che tradisce la moglie. I figli che incorporano il disamore, soffrono ciascuno la sua assenza di sincronia con le aspettative familiari, sociali. Una non mangia, uno mangia troppo.
La protagonista, la maggiore, Adriana, pensa di essere una creatura venuta dallo spazio, femmina, maschio, forse altro dal tutto conosciuto e conoscibile. Una parola nuova, impronunciabile e sconosciuta. Lei/lui sa dove sta andando, sono gli altri a perdere la messa a fuoco, a non tollerare tutto ciò che si proclama indefinibile, inclassificabile. Come se l’essere umano non fosse sufficiente. Come se riconoscersi in essere uomo etero, donna etero, gay o lesbiche o bisessuali o transgender fosse molto più importante del riconoscersi “essere umano”. Sì lo so mi ripeto, ma è importante per me.
Quando ha iniziato a pensare a questo film?
Non posso dirlo. Lo penso da sempre, credo. Riuscire a girarlo è stato per me un’esperienza dirompente. Dolorosissima e poi illuminante. Ho cercato lo sguardo di un bambino. Ho girato con lo sguardo di un bambino. Ho cercato di non essere predicatorio. Di non cedere ai vittimismi. Di uscire dalla narrativa corrente in cui i personaggi come me muoiono tragicamente. Li si vuole vedere sconfitti. Non possono sopravvivere felicemente.
Ma la realtà è anche un’altra. Possiamo esistere e possiamo esprimerci, possiamo perfino essere felici, avere un lavoro, essere riconosciuti per quello che facciamo piuttosto che per quello che abbiamo o non abbiamo tra le gambe. Sono molto legato al mio paese, alla mia cultura ma non posso dimenticare che senza gli Stati Uniti e la Francia forse non sarei mai riuscito a fare il regista. Sono dovuto emigrare per diventare quello che sono. Mi piace vivere ed esplorare nuovi territori. Chissà. Si vedrà.
Una delle recensioni uscite negli Stati Uniti scrive che il suo non è un film “benintenzionato”, credo intenda non pedagogico. Non indugia sull’esperienza della persecuzione e della marginalità. Adri, la bambina/bambino, è un essere umano che cerca un posto nel mondo.
Perché è così. La vita di una persona è un’architettura, un organismo complesso. Volevo raccontare la vita, il dolore, l’incertitudine dell’adolescenza di fronte alle aspettative adulte. Le vite spesso arrese degli adulti. Volevo raccontare il bisogno di essere visti e accolti per quel che si è, sempre. La mannaia del giudizio. La sofferenza per il dolore che si procura nelle vite degli altri quando non si corrisponde alle attese. Ho raccontato, credo, una famiglia. Una qualsiasi famiglia. Un luogo in cui chiunque possa riconoscersi. Tutti abbiamo una frattura, un danno. Tutti conosciamo la distanza che si apre fra quel che siamo, quel che sembriamo, quel che vorremmo.
Come ha trovato Luana Giuliani, la preadolescente che incarna Adriana/Andrea?
Ho cercato fra le ragazzine che fanno sport considerati “da maschi”. Luana gareggia con le moto. È un portento. Sono sempre molto preoccupato per lei, ho sempre paura che si faccia male. Non posso dirlo, ma vorrei che smettesse di correre in moto. Le voglio bene.
Lei ha un rapporto formidabile coi bambini, sul set. Si prende cura di loro come un padre. Le manca non avere un figlio?
Questa è una grande domanda. In ogni mio film ci sono bambini. Lo sguardo dell’innocenza. Uno sguardo che tutti abbiamo avuto. Il coraggio. La fragilità. Lavorare con i bambini è come lavorare con grandi maestri di verità. Ne ho bisogno. Sempre. Ho bisogno di ritrovare quello sguardo, in me, negli altri. Negli attori adulti amo la capacità di essere e tornare bambini. Di affidarsi. Di giocare.
Penelope Cruz incarna nel film una donna molto sola. Incompresa, straniera, sperduta. Diventa Raffaella Carrà negli unici momenti in cui si libera.
Penelope Si è lasciata condurre in luoghi di sfrenamento, di verità profonda, con una generosità, un’umanità e una professionalità veramente rare. Io la chiamo “la sciamana”.
E Vincenzo Amato, il suo attore guida?
Più che guida è il mio attore guidato con allegria. Mi sento cassavettesiano in questo. Amo lavorare con gli amici. Conosco Vincenzo da trent’anni. Ci siamo conosciuti a New York. Lui scultore del ferro, lavorava da un fabbro ed aveva le mani sempre bruciate.
Io studiavo e la sera lavoravo in un ristorante italiano. La notte ci incontravamo sulle scale, alla fine di giornate eterne e faticose. Fumavamo. Ci prendevamo in giro. Sempre innamorati di qualcuno.
Vincenzo è una persona luminosa, radicalmente autentica. Un artista straordinario.
Non c’è molta acqua, come in tutti gli altri suoi film, ne L’Immensità. Che ne è dell’elemento madre?
C’è invece. Bisogna trovarla. Vederla. Ma certo che c’è, l’acqua. C’è sempre.
E nel futuro, cosa vede?
Il futuro è un segreto da coltivare. Mi piacerebbe che fosse un gioco con cui non ho mai giocato, il futuro.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma