Alla fine dell’intervista Emmanuelle Nicot dice qualcosa a bassa voce: “Naturalmente non spetta a me dare suggerimenti, ma sarei felice se il titolo non fosse sull’incesto, come succede quasi sempre, perché non è quello il cuore del film”.
Ha ragione: nel bellissimo L’amore secondo Dalva, opera prima-rivelazione alla Semaine de la Critique di Cannes 2022, l’incesto è solo l’antefatto e – grazie al cielo – non si vede mai. Quel che racconta questa esordiente franco-belga è altro. È la capacità di superare il trauma. È il lento e accidentato ritorno alla vita della piccola Dalva, 12 anni e un look vaporoso da bellezza d’altri tempi, rossetto, pizzi, chignon. È il suo aprirsi al mondo, un mondo non facile che coincide con il centro di prima accoglienza in cui viene messa strappandola al padre-seduttore. Insomma è tutto il doloroso percorso che dovrà compiere per capire cosa ha subìto. Perché come molti ragazzini abusati Dalva ama sinceramente il suo carnefice e non capisce perché li abbiano separati a forza. Anzi vive come un’ingiustizia insopportabile l’arresto del padre, su cui si apre il film, e il suo ricovero forzato nella casa-famiglia.
“Succede sempre”, racconta Nicot, 38 anni, alle spalle un padre e un fratello che hanno lavorato a lungo nei centri di primo soccorso per minorenni, ma soprattutto una spiccata sensibilità personale al problema dell’influenza e del controllo a cui può essere sottomessa una persona. “Per sopravvivere le vittime elaborano una negazione totale del loro vissuto. Come il film fa capire poco a poco, Dalva non è mai stata a scuola ed è cresciuta sola con suo padre, che ha fatto di lei il sostituto della moglie da cui è stato abbandonato. Per questo è vestita e truccata in quel modo. E racconta a se stessa la storia di un amore così perfetto che nessuno all’infuori di loro può capirlo. È l’unico modo che ha per difendersi e accettare l’inaccettabile. Ma è un atteggiamento comune alla quasi totalità degli adolescenti nella sua posizione”.
L’amore secondo Dalva sorprende per molte ragioni. Una è la brevità, appena 83 minuti, che rima con densità. Non c’è un gesto, una parola, una scena di troppo. L’altra è l’estrema aderenza alla psicologia dei personaggi. Non solo Dalva, ma il giovane educatore che si occupa di lei, Jayden (Alexis Manenti, il poliziotto cattivo di Les Misérables, qui tenero e malinconico), gli altri ospiti della casa-famiglia, perfino il padre. Su ognuno di loro Nicot posa uno sguardo attento, partecipe, mai strumentale, senza concedersi la minima sbavatura. Chiediamo: come ha fatto a evitare con tanta sicurezza tutti i pericoli che un soggetto simile porta con sé, scorciatoie narrative, spettacolarizzazione, pornografia del dolore, sociologismi, atteggiamento giudicante?
“Beh non sono più così giovane, una volta sarei stata più impetuosa o più ingenua. Sulla sceneggiatura ho lavorato per quasi quattro anni, scrivendo e riscrivendo senza sosta. E ho studiato la materia a fondo. Non solo ho letto tutto ciò che potevo al riguardo, grazie a mio fratello ho anche passato parecchio tempo nelle case-famiglia. I due nomi a cui è dedicato il film, Samia e Dimitri, sono due giovani ospiti di queste istituzioni che ho seguito per anni. A loro sono ispirati i personaggi che portano il loro nome”, ovvero la compagna di stanza di Dalva, che sulle prime la rifiuta, e il riccetto occhialuto che si entusiasma per il suo look d’alto bordo. “Ma mai e poi mai ho pensato di usare i “veri” Samia e Dimitri per interpretare se stessi”, sottolinea Nicot. “Gli ospiti delle case-famiglia si portano dentro esperienze durissime. E prima che una regista sono una direttrice casting, so cosa vuol dire scendere con gli attori sul terreno più intimo. Con questi ragazzi quando apri una porta non sai mai cosa può esserci dietro. Non volevo sfruttare il loro dolore, ma lavorare con ragazzi stabili provenienti da famiglie altrettanto stabili”.
Come Zelda Samson, la piccola stupefacente protagonista, nome da diva del cinema muto e una sicurezza che contrasta con l’esilità e il dolore del personaggio. “Cercavo una ragazzina di classe media o alta, dotata di portamento fiero e proprietà di linguaggio. Il video di Zelda mi ha colpito immediatamente. A 11 anni, si era ripresa da sola nella sua stanza parlando di astrofisica e di materia oscura. Puntava al Nobel, e criticava i coetanei maschi. Una piccola femminista fiera e sfrontata! Anche troppo, rispetto al personaggio che avevo in mente. Come ho capito durante le prove, dirigerla significava riportarla a terra, renderla meno cerebrale. Vibrante e bravissima finché era lei a parlare, era molto meno efficace quando doveva ascoltare gli altri. Si disconnetteva, usciva dal personaggio. Per fortuna, avendo girato il film non certo in ordine cronologico, una delle prime scene affrontate era quella dell’incontro col padre in prigione”. E lì, di fronte a quest’uomo distrutto, incurvato dalla colpa, che non riesce più nemmeno guardare in faccia sua figlia (un formidabile Jean-Louis Coulloc’h, già protagonista de L’amante di Lady Chatterley di Pascale Ferran), lì è successo qualcosa.
“Di colpo Zelda ha capito. Ha realizzato davvero cos’era successo a Dalva. È entrata nel personaggio per non uscirne più. Era impressionante. Come se tutto il peso di quella storia le fosse caduto addosso in una volta sola. E pensare che trovare un interprete per il ruolo del padre non é stato semplice. Molti attori si sono rifiutati anche solo di fare il provino. La parola incesto fa paura a tutti. Le famiglie degli attori ragazzini sono state più comprensive. “Mio figlio non sa cosa voglia dire, ne parleremo prima a casa”, mi sono sentita dire il più delle volte. Massima collaborazione insomma. Anche noi del resto eravamo molto attenti. Zelda è stata seguita da uno psicologo durante le riprese. Tutto era sotto controllo. D’altra parte, ripeto, l’incesto non è il cuore del film, che infatti parla a spettatori di tutte le età. Dopo Cannes siamo stati in una infinità di festival vincendo ben 25 premi. Di questi, 4 sono stati assegnati da giurie composte da ragazzi di 11 o 12 anni. Per me è la conferma più importante. Significa che siamo riusciti nel nostro intento. La cosa incredibile è che in Francia e in Belgio le scuole hanno fatto muro. Con rare eccezioni, l’istituzione scolastica nazionale non vuole sentir parlare del film. Ed è un vero peccato perché parla di un problema enorme che secondo le ultime statistiche investe 2 allievi per classe e non conosce barriere di classe e cultura, riguarda gli strati più poveri come i più privilegiati. Credo che sarebbe uno strumento molto utile per iniziare a discuterne, non ha niente di osceno o intrusivo. Ma è inutile, per capire la forza di un tabù devi sbatterci contro. E sì che il film è stato sostenuto in tutti i modi, in sede di produzione. Pensavamo che avremmo dovuto girarlo con un budget minimo, al massimo un milione, ma la sceneggiatura è piaciuta al punto che ce ne hanno concessi tre!”.
In fondo il buon cinema è sempre più avanti delle istituzioni. Ma non è una consolazione.
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