Fausto Russo Alesi: “A Cannes a vedere Rapito inviterei Spielberg. Ma anche Fellini, Visconti e Wertmuller”

Dopo aver interpretato Francesco Cossiga in Esterno Notte, l'attore torna a recitare per Bellocchio in Rapito, in concorso all'ultimo Festival di Cannes, nella parte di Momolo, il padre di Edgardo Mortara, il bimbo ebreo "sequestrato" dalla polizia pontificia di Pio IX

Fausto Russo Alesi è uno di quegli attori che non desiderano che il loro cognome diventi proverbiale o un aggettivo, ma solo di poter essere sempre il supporto migliore alla storia che raccontano. Pensando solo a due ruoli della sua carriera, molto recenti, il Vittorio Nisticò di Solo per passione, la fiction diretta da Roberto Andò su Letizia Battaglia e il Momolo di Rapito di Marco Bellocchio, che lo ha (ri)portato a Cannes, faresti fatica persino a pensare che possano essere la stessa persona.

Lui è uno così bravo che spesso i cineasti lo scritturano per quei ruoli chiave, con poche pose ma decisive nell’evoluzione della storia, perché il protagonista, tra montaggio e abilità registiche, puoi pure sbagliarlo, ma quei personaggi lì no. Da sempre un leone del teatro (ben tre premi UBU), è un interprete che negli Stati Uniti avrebbe già in bacheca un paio di Oscar (uno come miglior non protagonista, ovviamente): ora speriamo che a Cannes si accorgano della sua performance straordinaria e dopo Elio Germano nel 2010 per La nostra vita di Daniele Luchetti e Marcello Fonte per Dogman di Matteo Garrone arrivi un altro premio come miglior attore per l’Italia sulla Croisette.

Rapito e Fausto Russo Alesi se lo meriterebbero, per una storia (vera) come quella di Edgardo Mortara, rapito dal Pontefice a una famiglia ebrea a inizio ottocento in una guerra di religione che ha distrutto una famiglia e ha spaccato in due un ragazzo. E un padre, Momolo appunto.

Fausto, come va? Non capita a tutti un anno come il suo: da Cannes a Cannes, da Cossiga a Momolo. Due ruoli “della vita” che ad altri suoi colleghi non capitano neanche in una carriera intera

Sono così felice di queste opportunità che ho avuto, della fiducia che Marco Bellocchio ha riposto in me per provare a raccontare questi due ruoli così complessi in due opere così difficili. Sono un uomo fortunato e orgoglioso d’aver goduto della maestria, della visionarietà, della capacità di raccontare storie importanti e belle di un maestro come lui. E del fatto che mi abbia accompagnato in questo percorso.

L’impressione è che in questi anni, nei sei film fatti insieme, da Paicher (Vincere) a Cacciapuoti (Sangue del mio sangue) passando per Giovanni Falcone (Il traditore) fino a questi ultimi due ruoli, questo cineasta abbia visto in lei qualcosa che forse neanche lei aveva del tutto capito di sé

Marco è un regista molto attento, uno che cerca, scova e scava dentro di te, dentro i tuoi occhi. Ho sempre pensato che alla tecnica e al talento lui senta la necessità di affiancare sempre il lato umano dell’attore, perché rappresenta un arricchimento per la storia e per l’interpretazione. Vale soprattutto per quei personaggi storici che escono da una pagina e di cui devi restituire un vissuto. E lì, se vuoi essere autentico, devi pescare da qualcosa del tuo passato così come dalla Storia per ritrovare l’universalità del e nel presente. Bellocchio sa intuire tutto questo perché è molto empatico e sì, arriva prima di tutti, anche di te, a capire se puoi restituire quel personaggio, renderlo pulsante e vibrante di emozioni. Poi, te lo dico francamente, per me ogni ruolo, ogni film, ogni spettacolo è un viaggio di scoperta, dentro una storia ma anche dentro me stesso, in un mondo in cui io desidero sempre essere veicolo generoso di un’idea, di un’anima in cui io lascio qualcosa di me e chi racconto fa la stessa cosa dentro di me. Così ogni volta devi metterti in gioco, scomodare parti inedite di te, spesso sacrificate e oscure.

Possiamo definire tutto questo come la chiusura di un ciclo come attore e nel suo lavoro con Bellocchio? O meglio il coronamento di un lavoro comune? Cossiga e Momolo sono due personaggi radicalmente diversi, ma che hanno in loro il dolore di chi è schiacciato tra dovere morale e ideologia, tra un Potere ottuso e violento e una legge arida, che sia temporale o religiosa 

La tua è un’interpretazione interessante: Cossiga è stato, semplificando, un viaggio dentro quei famosi 55 giorni, guardato con le lenti di una figura estremamente complessa e sfaccettata, poderosa e imprendibile. Qualsiasi giudizio si possa avere di lui, non può non risultare affascinante la sua figura, proprio per quell’alternarsi violento di luci e ombre. Con il regista abbiamo voluto percorrere la strada dell’umanità di questo personaggio, anche perché cronaca e storia e politica gliel’hanno sempre negata. A volte dimentichiamo che siamo tutti essere umani e in quanto tali abbiamo le nostre crepe, i nostri talenti, le nostre debolezze. Mi e ci interessava cercare la doppia faccia di quest’uomo, tutte le sue sfumature, indagarne i dettagli.

Lui ha una grandissima responsabilità politica, ma anche umana: è un grande amico di Aldo Moro, che è anche il suo maestro. Si dibatte tra la ragione umana e la ragione di Stato e le forze in campo sono veramente molte, deve rispondere a una domanda enorme ed atroce: come faccio a salvarlo? Come faccio obbedendo al mio animo e a ciò che ritengo essere il bene del Paese? Poche parole in un mare sconfinato di poteri forti e occulti, di ragioni supreme, pubbliche e private, un viaggio immerso nello strazio di quello che alla fine, nonostante le responsabilità politiche e istituzionali, è solo un essere umano che porta il peso della sorte di un altro essere umano. Un personaggio titanico, ma a volte disorientato come un bambino. E la mia fortuna è che tutto questo è stato possibile grazie a una sceneggiatura notevolissima e alla visione registica di Marco Bellocchio, che sa agire sulla Storia così come sull’arma potente della metafora, tenendo aperte le nostre ferite aperte collettive, continuando a coinvolgerci come parti in causa di interrogativi ancora, tuttora, senza risposta. Lavori come Esterno notte o Rapito ci raccontano e ricordano come e quanto il Potere possa agire su di noi, sono due film che risuonano dentro di noi come spettatori e cittadini, non ci permettono di sentirci estranei a quelle ingiustizie.

Tutto questo per me è accaduto, peraltro, con due ruoli così diversi e poter indagare l’umanità da due angolazioni quasi opposte è uno degli elementi dell’immensa gratitudine che provo per questo regista.

Momolo agisce tra due mondi, uno in declino e un altro in ascesa, quello che lì è politica, qui è religione, ma le logiche non sono dissimili. Nel suo caso, forse, c’è anche un elemento generazionale, ma soprattutto pure lui è ossessionato dal salvare qualcuno. Suo figlio. Rapito, anch’egli. Vuole riavere il suo bambino, divenuto per lo stato pontificio e per il Pontefice un’ossessione, un punto di principio su cui incardinare un Sistema di regole e di volontà di dominio (perfettamente incarnato dall’inquisitore interpretato da Fabrizio Gifuni – nda), e per lui ovviamente un dolore incurabile.

Le sue armi sono illuminate, troppo per una società dominata da logiche tribali, lui si ostina a credere nella legge e nella giustizia, segue le regole laddove tutti le sovvertono e le piegano ai propri obiettivi. Mentre subisce, per anni un abuso di potere inconcepibile – lo intuisce all’inizio, e infatti sta per fare un gesto terribile e inconsulto, e alla fine, in quell’aula di tribunale in cui esplode, inevitabilmente -, lui reagisce con temperanza, prudenza, disposto anche a rinunciare al suo orgoglio e le sue radici, pur di riavere il suo Edgardo. In un mondo di dogmi e certezze granitiche e violente, lui è l’unico che si mette in discussione continuamente.

La battuta più bella e straziante di Momolo è “Non potevo fare di più, vero?”. Lo chiede sussurrante, quasi supplicante alla moglie, interpretata da Barbara Ronchi, dopo il primo incontro con il figlio dopo il rapimento.

Hai ragione, è un uomo che viene travolto da una tempesta di ideologie, tra la moglie che mette il suo essere ebrea anche davanti alla sorte del figlio e un Pontefice che non ha alcuna misericordia per questa famiglia ma ascolta solo le ragioni di stato e della sua religione per riaffermare una Fede che ha poco di spirituale e molto di temporale. Lui in questo uragano usa le armi della pazienza, della speranza, della fiducia, della moderazione, del sacrificio personale, del bene altrui messo davanti al proprio. Si intuisce che anche per lui la religione ha un valore, così come le sue radici. Ma combatte sopra ogni cosa per un diritto che ritiene intoccabile, quello di padre.

Martin Scorsese una volta disse che tutti dovevano sentirsi in colpa con Joe Pesci. Uno talmente bravo che spesso gli dai le parti da comprimario fondamentali per la tua opera e non da protagonista perché uno così in poche pose ti salva il film. Ecco, non crede di averla a lungo subita anche lei questa ingiustizia? 

Io mi sento di dire solo tre cose: la prima è che mi inchino sempre di fronte alla bellezza e al talento, quindi quando si ha la possibilità di essere pensati anche per una singola scena in un film che è un grande progetto, aderisco con tutto il cuore, dando tutto indipendentemente dalla luce che può portare a me come attore; la seconda è che lì dove sento che non sono coinvolto ma usato, e che l’utilizzo delle mie qualità è sterile e funzionale, non sono ipocrita, mi dispiace. Anche in quel caso cerco sempre di fare del mio meglio, ma credo che si perda un’occasione. La terza è che io, per rendere al meglio, ho bisogno di esprimermi a 360 gradi, quindi patisco se non ho la possibilità di raccontare le storie di esseri umani a tutto tondo, di fare veramente un viaggio nella complessità. Se tutto questo mi viene negato, soffro.

Sono sincero, dopo questa stagione così fortunata, mi auguro che accada più raramente rispetto al passato, perché è successo che fossi visto solo come un oggetto cinematografico o che potessi affrontare solo superficialmente un personaggio. O che tale risultasse, nonostante il mio lavoro.

Quanto, in Rapito, c’è anche della sua improvvisazione? L’impressione, nella scena più dolorosa, è che ci sia tanto di suo.

Ma è davvero così importante dirlo, capirlo, esplicitarlo? Un attore in un viaggio così, con il regista mette in campo un dialogo profondo, si perde nel personaggio e nei suoi sentimenti e non è neanche possibile comprendere dove finisce la visione del cineasta e inizia il talento dell’interprete. Ogni volta che ho lavorato con Marco Bellocchio è stato come scendere un po’ di più nel senso più intimo del mio lavoro d’attore,  tra di noi c’è un rapporto di ascolto profondo, di scoperta reciproca, di serrato confronto che porta di sicuro a una fertilità creativa per il bene del film. Non rispondo a questa domanda non perché non voglia, ma perché credo che alberghi in momenti come quello il mistero del cinema, dell’arte, quel qualcosa di non definibile e inafferrabile che ci trascina e ci commuove. Tornando a quella scena, quello è un gesto liberatorio inevitabile per Momolo. Anzi, no, non ha nulla di liberatorio, lì dentro ci sono tutte le non risposte di anni, il capire che l’essere stato l’unico uomo giusto in quella vicenda gli ha portato solo strazio. E non importa da dove venga quell’urlo, quelle lacrime, quei pugni in testa: fa parte del pudore e della riservatezza che è giusto che vi siano nel rapporto tra autore e attore.

La sua compagna di set, Barbara Ronchi, alle nostre telecamere ha confessato “amo non essere riconosciuta”. Lei ci sembra della stessa pasta: preferisce fare grandi film al fatto che il suo volto diventi famoso

Io voglio fare quello che è meglio per la storia, non quello che è meglio per me. Intendiamoci, anche a me fa piacere che il mio lavoro venga riconosciuto, ma tra l’essere parte di un capolavoro o la fama, non ho dubbi su cosa scegliere. Per me la cosa fondamentale è riuscire veramente ad aderire completamente a un ruolo, così che vi sia dentro il mio vissuto e il mio tempo, che porti il pubblico ad emozionarsi e pensare, a ricordare quell’opera, teatrale o cinematografica, nel tempo.

La sua è una carriera particolare, in cui pochi autori hanno avuto molta importanza.

Di Marco abbiamo detto, poi c’è Silvio Soldini che mi scelse per il mio primo film, Pane e tulipani. E ancora Saverio Costanzo, In memoria di me rimane uno dei lavori più potenti e importanti che ho fatto. E Roberto Andò, insieme abbiamo fatto delle cose importanti che si muovono tra il cinema, la televisione e il teatro. In realtà ho avuto la fortuna di incontrare molti autori nel mio percorso e non è importante tanto il ruolo che scelgono per te, quanto incontrare un punto di vista nuovo, interessante e diverso, un mondo altro con un modo di concepire l’arte differente. E sai è che indipendentemente da successo, premi o riuscita del lavoro, ne uscirai arricchito. Però, consentimi, è un elenco impossibile: come posso dimenticare Marco Tullio Giordana, per esempio? E poi questo discorso andrebbe allargato agli altri reparti, a tutti coloro che fanno parte di un progetto. Per questi ultimi due lungometraggi, ad esempio, sono stati fondamentali in produzione la Kavac e Simone Gattoni così come Ibc Movie e Beppe Caschetto.

Allora andiamo sul teatro. Quello che è stato Marco Bellocchio nel cinema per lei, lo è stato Luca Ronconi a teatro?

Verissimo, sono entrambi due percorsi di approfondimento artistico e umano totali e totalizzanti. Con Luca Ronconi ho avuto l’opportunità di affrontare dei grandissimi ruoli da protagonista, ma pure nella mia carriera teatrale come fai a non ricordare maestri come Nekrosius o Stein o colleghi con cui sono cresciuto come Serena Sinigallia? Certo, Ronconi e Bellocchio, per quantità e qualità di lavoro e di tempo trascorsi insieme, sono colonne della mia storia, del mio apprendimento continuo. Perché quando lavori con qualcuno, quando sei a contatto con talenti unici, impari. Ed è la cosa più bella di questo mestiere.

A teatro ha diretto (e dirigerà): da Letizia Russo a Eduardo De Filippo, da Padri e figli di Turgenev a cose sue. Come mai al cinema non è successo?

Mi piacerebbe, ma non è assolutamente il momento ora. Quando ci sarà la storia che avrò bisogno e desiderio e urgenza di portare totalmente sulle mie spalle, se questo racconto avrà la forza di esistere e resistere dentro di me, allora sarà un viaggio che vorrò fare nella mia maturità. Un’idea c’è, ma dovrà essere abbastanza resiliente da valer la pena di essere mostrata. Per me è fondamentale, come mi è successo con Padri e Figli di Turgenev – viaggio faticoso e bellissimo di quattro anni – che dentro di me qualcosa entri come un seme e germogli. Allora cerco di coltivarlo, annaffiarlo e farlo crescere dentro di me e se sboccia, lo proteggo in tutti i modi e cerco di farlo diventare una una pianta da far vedere prima o poi. Ecco se tutto resiste a questi tempi lunghi, allora rivendico il mio diritto di mostrarlo, di farlo vivere quel tutto. Perché se lo sarà meritato.

Chiudiamo con un gioco. Cannes, prima mondiale di Rapito: ha un po’ di biglietti. Chi invita?

Mi piacerebbe che ci fossero dei registi che hanno un loro mondo completamente differente di esprimersi e vedere la realtà, un modo ovviamente che mi piace per poter godere di pareri e analisi differenti. Di sicuro Steven Spielberg che per primo si era avvicinato a questa storia. Poi se posso avere in sala anche autori non viventi, invitiamo Federico Fellini, Luchino Visconti, Lina Wertmuller. E poi Pedro Almodovar e Lars Von Trier.

Nessun regista italiano in attività, furbo.

No, è che io li vorrei tutti i registi italiani in attività, perché mi auguro sempre che tutti noi possiamo attingere l’uno dall’altro.