Difficilissimo oggi fare un cinema politico. Non nel senso di un cinema di denuncia, ma proprio un cinema che rifletta sulla politica e i suoi meccanismi, e addirittura prendendo come dato di partenza la dimensione internazionale, l’inafferrabilità dei poteri internazionali e la vanità di quelli locali. Da che punto di vista raccontare tutto ciò, in nome di cosa, e soprattutto con quali modelli che non siano quelli semplicemente narrativi della serialità, cercando uno stile, uno sguardo all’altezza dei tempi? Albert Serra, catalano, è un regista notissimo nei festival e ignoto al grande pubblico (Pacifiction è il suo primo film ad arrivare nelle nostre sale).
I suoi primi film lo rivelavano come un talento tra lo sperimentale e l’ironico che rileggeva archetipi del racconto, dal Don Chisciotte di Honor de cavalleria al viaggio dei Magi in El cant des ocells. Da un po’ di tempo si poteva temere che, adottato pienamente dalla Francia, il suo cinema perdesse di sapore. E invece con questo film si confronta col mondo contemporaneo, mettendo in scena uno smarrimento che è anche metafora del proprio modo di lavorare in un sistema di produzione internazionale.
Siamo ad Haiti. Una specie di governatore alla Greene, emanazione dello Stato francese accompagnato da un’assistente transessuale, si barcamena un po’ atono (lo interpreta un Benoit Magimel irriconoscibile, tra lo strafatto e il sornione). Completo di lino bianco come in una parodia del colonialismo, disincanto da eroe di Camus, il protagonista attraversa vicende narrate con uno stile che non è mai drammatico ma nemmeno comico: sospeso, estenuato quasi sul filo del grottesco, con un sorriso che si gela sulle labbra. Siamo, come sguardo, dalle parti di certi film di Luis Bunuel, ma con lunghe scene quasi documentarie e improvvise aperture su una natura soverchiante: e proprio il rapporto tra il potere e la natura, e tra la democrazia europea e il resto del mondo, è il tema del film.
Voci incontrollate parlano di una ripresa di test nucleari sull’isola. L’ammiraglio di una nave è evasivo e balla in un improbabile strip club. Stranieri un po’ rintontiti arrivano da chissà dove a fare chissà cosa. Il prete protesta contro il casinò locale. Il capo del governo è una specie di ras inquietante e gioviale. Gli indigeni minacciano di organizzarsi. All’orizzonte si intuisce la sagoma di un sottomarino.
Pacifiction torna continuamente su un paio di luoghi: un Chiesa nella foresta, un night con una fauna spettrale e ipersessuata: luoghi di architettura kitsch immersi nella natura, sembrano quasi dei fotomontaggi: emblemi di una violenza anzitutto visiva, che ha un suo perverso fascino da fantascienza. Del film rimangono proprio queste immagini potenti: la carrellata sui container del porto all’inizio, il lungo interludio in barca fra le onde, che dopo un po’ ha un effetto quasi estatico.
Scene in Pacifiction che rivendicano una libertà, una fuga dal racconto, l’ambizione di dire con le immagini cose che non si possono dire altrimenti. O più precisamente di rendere, andando oltre il realismo, un’atmosfera dell’epoca, un sentimento del tempo. Un sentimento che è anzitutto una disillusione verso la democrazia (vista esplicitamente come una farsa, a cui non sono estranei i cosiddetti “poteri forti”, invisibili ma ciechi e stupidi come tutti gli altri). E il senso, disperato ma non cinico, e continuamente a confronto con immagini di grande bellezza, di un’umanità che sembra voler morire, o a cui non importa di morire, cieca davanti al resto del mondo e alla natura.
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