L’amore secondo Dalva, la recensione: ritorno all’infanzia

L'esordio della belga Emmanuelle Nicot, vincitrice nel 2022 di due premi alla Semaine de la Critique a Cannes, arriva in sala l'11 maggio con Teodora Film

La violenza di una separazione scuote lo schermo. Le porte sbattono, gli oggetti cadono, i corpi resistono. Ci vuole un momento prima di comprendere quello che sta realmente accadendo. Non si tratta di una scena domestica finita male, ma di un’infanzia violata. In quel tumulto di caos e fracasso, l’unico personaggio che riusciamo a distinguere è una donna. Ma si rivela presto un’illusione. Da qualche parte tra la chanteuse realista del dopoguerra e la Simone Signoret di Casco d’oro, potrebbe avere vent’anni o forse cinquanta, in realtà ne ha soltanto dodici. Dalva è una ragazzina sotto l’influenza incestuosa del padre, di cui si crede profondamente innamorata e da cui non riesce a separarsi. Ma la giustizia fa il suo corso: la polizia irrompe e porta via quella femme-poupée fatta su misura per soddisfare un mostro. Nella scena successiva, l’esame medico ordinato dal tribunale, la verità emerge violentemente: Dalva è stata rapita a cinque anni e abusata per sette da suo padre. È la fine di un incubo e l’inizio di una ricostruzione.

Dalva, il debutto di Emmanuelle Nicot

Comincia così e comincia da qui L’amore secondo Dalva. Per il suo debutto, Emmanuelle Nicot sceglie l’impensabile, l’incesto, e lo racconta lasciando fuori il crimine e il sensazionalismo. Il punto di vista è quello della protagonista, che ha interiorizzato la pulsione incestuosa del padre e normalizzato la relazione col genitore. Dalva è incapace di comprendere l’abuso subito e fa corpo con l’abusante. La prospettiva disfunzionale dona al film la sua profondità e permette di esaminare i meccanismi perversi del controllo. Nicot lascia la confusione in sospeso, distribuendo con parsimonia i pezzi del suo puzzle, e poi la sbroglia dentro una casa d’accoglienza per minori, dove il film si accomoda e diventa racconto di (ri)formazione. 

Separata dall’unico uomo della sua vita, quello che gli ha insegnato tutto, donato tutto e preso tutto, Dalva deve disfarsi di sette anni di manipolazioni ma inciampa sulla negazione e rimanda la guarigione. Divorata dall’assolutezza del suo amore proibito, si ricostruirà a contatto col suo educatore e al fianco di una nuova amica, più testarda di lei. Zelda Samson è Dalva, è il suo sguardo ribelle sostenuto da una folta frangia, da una grazia e una rabbia che colpisce dove fa più male. È lei a trascinare il film come un cavallo imbizzarrito, a imporgli il suo ritmo, quello di una bambina diventata donna troppo in fretta. Ma adesso può finalmente rallentare, recuperare i suoi anni, ritornare all’infanzia, sentirla sulla pelle come il sole, come il primo raggio di spensieratezza.