Ci voleva la sfida di una nuova città da raccontare, per svegliare Wim Wenders dal torpore di troppi anni senza lungometraggi di finzione all’altezza del suo talento. In Perfect Days sviluppa la sua fascinazione per il Giappone, già al centro di due documentari della seconda metà degli anni Ottanta: Tokyo-Ga, omaggio a Ozou, e Appunti di viaggio su moda e città, un dialogo con lo stilista Yohji Yamato.
Come il vecchietto di Up
La frenesia di Tokyo che seduceva il ribelle protagonista del nuovo cinema tedesco rimane ora fuori campo, anche se ci troviamo a Shibuya, uno dei più dinamici e affollati quartieri della capitale giapponese. La casa di Hirayama, il sessantenne protagonista di questa storia, interpretato da uno straordinario Kōji Yakusho, è tradizionale e traballante, piccina come impone il nostro immaginario nutrito di cultura nipponica a distanza. È circondata dai grattacieli, uno spazio sospeso in un tempo andato, come la casa del vecchietto di Up della Pixar.
Vive da reduce in un suo universo analogico. La sua è una vita abitudinaria e monacale, che si ripete uguale ogni giorno, fino a che alcuni incontri inattesi aprono uno spiraglio sul passato e mettono alla prova la sua serenità. Ma si ostina a sorridere, Hirayama, alieno solitario e silenzioso che si oppone al tempo che altera la città che lo circonda, oltre alle abitudini dei suoi abitanti.
Pulire i bagni pubblici
Ignora cosa sia Spotify e ascolta audiocassette rock anni ’70 e ’80 nella sua autoradio, quando ogni mattina va a pulire i bagni pubblici del suo quartiere. Un lavoro che sembra renderlo felice, a cui si dedica con una cura maniacale, fornito di tuta, strumenti per pulire e perfino uno specchietto che lo aiuta a rendere immacolate anche le parti più nascoste delle toilette. Le nostre preferite, vero miracolo di efficenza nipponica, sono quelle che fanno ridere gli stranieri, con le pareti che passano da trasparenti a invisibili con un giro di chiave.
Il lavoro gli lascia il tempo per dedicarsi alla lettura di libri acquistati di seconda mano, da Faulkner a Patricia Highsmith, oltre alla passione per la musica. Si (e ci) delizia con ballate di vecchie conoscenze di Wenders come Lou Reed, oltre a Nina Simone, Velvet Underground, Patti Smith. Per non parlare delle foto, che scatta rigorosamente con una vecchia macchina fotografica a rullino. Il soggetto è quasi sempre lo stesso: la luce che filtra tra le foglie degli alberi. Oppure komorebi, per usare una delle parole giapponesi capaci di sintetizzare l’ostinata poeticità sfuggente del quotidiano, che Perfect Days riesce a trasmettere splendidamente.
Le pieghe nascoste di una metropoli
Wenders torna a raccontare le pieghe nascoste di una metropoli, e le indossa con magnifica precisione, da sarto esperto. Se Berlino la guardava dal cielo e Lisbona dal suo fiume che sembra un mare, Tokyo ce la racconta ad altezza d’uomo, dal punto di vista di un Candide ferito da un passato che sarebbe didascalico raccontare nel dettaglio. Il regista tedesco – 78 anni ad agosto – si lascia andare alla tenerezza e abbraccia l’anzianità come impegno a godersi ogni istante del presente. Meglio se al ritmo di Nina Simone, che ci ricorda come “It’s a new dawn, It’s a new day, It’s a new life for me. And I’m feeling good”.
Tempo, senza compromessi
Il tempo, quello sì, rimane l’elemento che non accetta compromessi, pur spostandosi in ogni parte il mondo. “Perché le cose devono cambiare?”, si domanda la padrona del bar in cui Hirayama ama passare del tempo. La risposta arriva idealmente, poco dopo, quando un anziano, smarrito dall’ennesima trasformazione di un isolato della città, sospira con la saggezza infinita degli umarell che guardano i cantieri: “Cosa c’era prima? Non me lo ricordo. Ecco cosa vuol dire diventare vecchi”.
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