Mattina presto, un hotel del centro, Pupi Avati arriva in anticipo. Sembra felice del suo ultimo film, La quattordicesima domenica del tempo ordinario, e da come ne parla, con delicatezza e passione, capisci che per lui ha un significato particolare. Parla con la sua protagonista, Edwige Fenech, per cui il tempo sembra essersi fermato, beve un bicchiere d’acqua e si avvicina. Ha voglia di parlare, è un oratore irresistibile e divertente anche a quest’ora. Uno dei motivi per cui lo è, un affabulatore, è la sua sincerità, un’onesta intellettuale ed emotiva che è la stessa che mette nei film e non ha nulla a che fare con il conformismo odierno o con il politicamente corretto.
In questo film racconta la storia di due innamorati che si rincontrano dopo una vita, uniti dal lutto del terzo lato del loro triangolo sbilenco fatto di sentimenti, note, vestiti di sartoria e ambizioni deluse. Un’opera al contempo impietosa e tenerissima, d’altri tempi, che apre in Pupi Avati diverse porte dell’anima.
Fare un film come questo è un po’ come fare la pace con un pezzo della propria vita?
Con la mia vita, tutta intera. Mi auguro non sia l’ultimo lungometraggio della mia esistenza, ma so per certo che un film del genere venti o trent’anni fa non l’avrei mai fatto né avrei mai avvertito la necessità di metterlo in scena. Ora con quel minimo di libertà che mi concede il fatto di non avere moltissimo tempo davanti a me, di dovere centellinare quelle che sono le opportunità che mi vengono date e quindi dare un senso a quello che faccio, sentivo il dovere di raccontare questa storia. In passato potevo permettermi di fare cinema anche solo per il piacere di farlo, senza che assumesse una ragione o un senso precisi nella mia vita, che cambiasse qualcosa dentro di me. Ora no. Questo è un film molto personale, soprattutto per il luogo e il tempo in cui è ambientato: tanti bolognesi capiranno molto, forse troppo di me.
Ad esempio, cosa svela di sé che prima aveva tenuto nascosto?
La gelosia. Sembrerà forse secondario nel film, ma è un tratto distintivo del personaggio che in gioventù è interpretato da Lodo Guenzi e in vecchiaia da Gabriele Lavia. Ed è qualcosa che fa profondamente parte di me. A causa di questo sentimento ho fatto patire per 60 anni la donna della mia vita, la più bella di Bologna. Una cosa che un tempo si poteva dire, ma che ora appare parossistica; ovviamente non era la più bella, lo era per me. Mia moglie è la donna che ho desiderato di più nella vita, che ho corteggiato per quattro anni e tutt’ora io so che il giorno del mio matrimonio è stato il momento di massima felicità di tutta la mia vita. Intendiamoci, il più felice rispetto a tutti i precedenti, ma anche di tutti i successivi. E io ero convinto che invece tutti sarebbero stati, da quel momento in poi, così belli. E invece né prima né dopo, in questi 60 anni ho riprovato quelle sensazioni. Ma l’importanza che io do a questa donna da sempre mi ha portato a temere così tanto di perderla da massacrarla e nel film si capisce quanto sia patologico quel tipo di amore, quanto faccia male a lui e lei. In un rapporto è qualcosa di devastante e mettendolo sullo schermo mi sono reso conto di quanto lo sia.
Non mi sta dicendo tutto, vero?
C’è anche il rapporto con mio padre. Con il mio pudore, quando mai avrei trovato il coraggio di affermare sul grande schermo quanto mi sia mancata la figura paterna? Il relazionarmi con un maschio sarebbe stato fondamentale per me, per il carattere che ho. Perché pur avendo avuto una madre provvidenziale, che quando è venuta a mancare mi ha tolto il mondo da sotto i piedi, e che ha interpretato sia il ruolo materno che paterno, avevo comunque bisogno di qualcuno a cui raccontare la mia vita e che non mi volesse il bene assoluto e acritico che provava mia madre. Per lei ero il migliore, si crucciava quasi fino alle lacrime perché non mi davano l’Oscar o il Leone d’Oro. Mio padre, come tutti i padri, sarebbe stato più “lucido”. E invece se n’è andato che io avevo 12 anni con la preoccupazione di chi sarebbe diventato quel ragazzino un po’ imbranato, timido, sfigato, bruttarello. Lui, fisicamente, invece, era come Cesare Bocci – che lo interpreta nel film – bellissimo e simpatico, era uno che faceva ridere le donne. Hai idea di quanto fosse difficile far ridere le donne della sua generazione? Tutte erano innamorate di lui, le donne della Bologna bene pendevano dalle sue labbra, era un affabulatore pazzesco e mia madre era gelosissima. Capisci? Non poteva che essere preoccupato per me, ero la sua antitesi.
E invece quel ragazzino sfigato è diventato Pupi Avati.
Un regista, uno scrittore che ancora sogna di vincere il Nobel, per dare un senso alla mia vita e forse dimostrare a lui che poteva stare tranquillo. Che poi i premi sono bugiardi, quindi non cambierebbe nulla, basta vedere quelli che li vincono. Però pensa la coincidenza, la primavera dell’anno in cui morì – se ne andò il 10 agosto – lui venne a Roma con i suoi amici storici, Gabriele Gardi e Piero Giordani, persone di gusto, eleganti per andare a Cinecittà. Faticarono tanto a entrare e riuscirono a vedere un set di un film di Totò. E tornarono talmente colpiti dall’esperienza che decisero di produrre un film. Morì prima di riuscirci e senza neanche lontanamente immaginare che un giorno di quella Cinecittà suo figlio ne sarebbe stato il presidente (nel 2002, dopo Felice Laudadio). E che avrebbe fatto 54 film. Sarebbe bello ora incontrarlo, per dirgli che non ce l’ho fatta.
Come come? Non ce l’ha fatta? Dopo una carriera così?
Siamo tutti falliti, Boris. Se sei onesto con te stesso, sai di esserlo, perché come dico nel film tutti vogliamo troppo. Abbiamo aspettative troppo alte nei nostri confronti, tutti abbiamo qualcosa che non abbiamo raggiunto. Ed è qualcosa di bello e rassicurante, perché ti rende fragile e questa debolezza la vedi anche negli altri, in chi e ciò che ti circonda. E poi è questo senso di immanente fallimento, di mancanza che ti dà l’energia per andare avanti, per fare sempre meglio, per andare oltre i tuoi limiti. Una parte di me è ancora quel ragazzo al chiosco di Via Saragozza ancora illuso sulla vita. A 84 anni sto scrivendo un romanzo e punto al Pulitzer, ovviamente. Anche se non so nemmeno se sono eleggibile per quel riconoscimento.
Parliamo degli attori. Come sempre ci sono tante scommesse. A partire dal clamoroso ritorno di Edwige Fenech.
Hai notato che si fa una doccia? O meglio che dice che ci va, poi lui chiude la porta, però voleva essere una gentile citazione del genere che l’ha resa celebre. Lei era la doccia in quei film, così volevo esorcizzare il momento clou di quelle opere con un gioco cinematografico. Sono sincero, ormai la nostra è una dolce condanna, da me e mio fratello Antonio tutti vi aspettate la scelta di cast sorprendente, spiazzante. Nessuno ci chiede mai “quand’è che fate un film con Favino?”. Da noi volete gli azzardi. E piace anche a noi, a partire dalle lotte con le committenze per convincerli della bontà della scelta. Ricordo quanto scetticismo raccolse inizialmente Renato Pozzetto per Lei mi parla ancora, e come lo difendemmo. E quando facciamo quadrato su un nome, Antonio ed io, mica sappiamo se davvero la nostra scelta si rivelerà fortunata. Ci assumiamo il rischio. Quello che mi dispiace è che quest’esempio in 60 anni nessuno l’ha seguito. Ma forse c’è un altro motivo per cui lo facciamo.
Quale?
La telefonata. Quella telefonata con cui comunichi a chi hai scelto cos’hai pensato per lui o per lei. Fare il prefisso del Portogallo, sentire rispondere Edwige e dirle “ho pensato a un film per lei”. E lei che ti risponde garbata che ha smesso di fare l’attrice. E tu “sì, ma aspetti, mi ascolti”. E sentire la voce spezzata, l’emozione, lei che dice “ma è bellissimo”, capire che sì, lo farà, e ne è entusiasta. O Gabriele Lavia a cui accenni del personaggio dicendogli “dopo Zeder, ti va di rifare qualcosa insieme dopo 40 anni?” e lui da Milano ti piomba sotto casa. E poi ti danno la vita, perché per loro non sei un appuntamento sull’agenda tra un set e l’altro. Quella telefonata porta gioia e dare gioia è più bello che riceverla, nella tua vita da un gesto così ottieni un riverbero meraviglioso. Anzi, devi stare attento perché poi puoi scambiarlo per onnipotenza. Tutto questo crea un clima bellissimo sul set, un rapporto umano forte, qualcosa che è più di un film. Diventa un dono reciproco.
Diventa anche un gioco? Un gioco cui lei cerca di far stare bene tutti?
Credo dipenda tutto dalla mia bolognesità. Ricordo sempre che Vittorio De Sica doveva fare Valentino, un film con Rudolf Nureyev che poi ha fatto Ken Russell, ma il produttore era preoccupato per le condizioni di salute del regista. Mi chiama, ci lavoravo nel campo della pubblicità, e io non dormo la notte. Un film, come aiuto di De Sica, magari avrei girato delle scene con lui o al suo posto. Mi aspettavo un colloquio difficile, ero pronto a tutto. Entro, trovo il produttore e Vittorio De Sica, vestito di bianco, elegantissimo e bellissimo. Uno degli uomini più belli che io abbia mai visto in vita mia. E mi dice “di dove sei?”. E io “di Bologna”. Lui “Allora va bene!”. Finito così, gli bastava. Mi ha preso. Certo, è un’esagerazione, però è vero che la bolognesità, soprattutto una volta, era una categoria dello spirito. Non so se dipende dalla mia, nostra cultura contadina, dal nostro senso della comunità, del coinvolgimento, di non lasciare nessuno fuori.
Continuo a pensare che lei sia una delle persone più romantiche che io abbia mai incontrato, e il fatto che il personaggio di Lodo sia un tuo alter ego me lo conferma.
Intanto fammi dire una cosa: Lodo Guenzi è l’attore più talentuoso con cui io abbia mai lavorato. E lo dice uno che è al 54° film. Quando è disperato, disorientato raggiunge vette interpretative che io non ricordo di aver visto in altri. Io gliel’ho detto: smetti di cantare e comincia a recitare seriamente.
Un po’ come è successo a lei. Voleva fare musica, ha fatto cinema.
Il talento è tremendo in questo, non necessariamente coincide con la tua passione e devi farci pace. Soprattutto, devi capirlo in tempo.
Sta già lavorando al prossimo film vero?
Sì, si chiama L’orto americano, sarà un film nero, gotico, perché io ho sempre bisogno di cambiare. Se vuoi essere prolifico devi andare in posti diversi, non fermarti, cambiare mestiere. Ne parlavo qualche settimana fa con Dario Argento e a un certo punto gliel’ho chiesto “come hai fatto a fare sempre lo stesso film, tutti sangue, coltellate, orrore?”. Io non potrei fare sempre la stessa cosa, mi annoierei a morte, ho sempre bisogno di linfa nuova e di rischi, di avere paura. Certo, con questo film forse ho esagerato!
Chi sarà il prossimo Lodo Guenzi?
Non posso dirtelo, perderei il vantaggio competitivo con il prossimo committente. Però posso dirti che soprattutto le star televisive, quelli che vogliono fare una cosa, una sola che li riscatti, fanno la fila fuori dal nostro ufficio. Non sai quanti si propongono, chiedono esplicitamente una parte. E quanti si offendono perché si aspettano di essere chiamati e il loro telefono resta muto.
Il momento più vero e più suo del film qual è?
Quello degli applausi registrati. Quello è un momento davvero mio. Quando sono triste, depresso, abbattuto metto su questo disco di Bing Crosby, al Palladium, una celebrazione della sua carriera a Londra. E l’incisione parte con questo applauso che a un certo punto cresce, si fa roboante, incontenibile, è evidente che lui è entrato in scena. E io, come il mio personaggio, mi beo, me ne approprio, godo come se fosse dedicato a me. Un’appropriazione indebita, infantile.
Un’appropriazione indebita, infantile. Come il cinema.
Bravo, hai ragione. Come andare allo stadio e convincersi che tu sia determinante per il risultato della tua squadra del cuore.
L’ultima domanda. La più stupida. Perché questo titolo?
Perché nel calendario religioso La quattordicesima domenica del tempo ordinario è nient’altro che la data del mio matrimonio.
Appunto, Pupi Avati, lei è la persona più romantica che conosco.
Ok, lo ammetto.
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