La prima cosa che ti salta violentemente all’occhio, e al cervello, e alla pancia di Rapito è la totale incapacità di chi lo guarda di mantenere una serenità di giudizio sulla vicenda appena si riaccendono le luci in sala. Come spesso accade nella cinematografia di Marco Bellocchio c’è un confine dell’anima dello spettatore che il regista, con il suo cinema furiosamente composto, lacera per lasciarti sempre in una posizione di precarietà e incertezza rispetto alla storia che racconta, ti terremota dentro.
E lo fa attraverso personaggi con certezze spesso granitiche, con vicende, vere o inventate, che chiamano in causa i massimi sistemi e che quindi sarebbero facilmente leggibili con categorie grossolane – il Bene e il Male, il giusto e il lecito, la libera scelta e la prevaricazione – e di facile presa su pubblico e una buona parte di critica che cerca nelle opere dei grandi maestri la calda coperta di un’ideologia un tanto al chilo.
Rapito, la trama
Il suo ultimo film, Rapito, in concorso al 76esimo Festival di Cannes, è la storia vera, straziante, durissima di Edgardo Mortara: il 23 giugno del 1858, per un presunto battesimo celebrato clandestinamente da una domestica preoccupata per la sua salute, viene rapito dalla gendarmeria pontificia un bimbo di sei anni, per ordine di Papa Pio IX e il piccolo diventa al contempo il centro di un caso diplomatico che restituisce al mondo un’immagine di potere anacronistico e tribale dello stato pontificio e il simbolo della lotta di chi combatte per la libertà e l’unità d’Italia.
Ma Il caso Mortara (il film è liberamente tratto dal libro omonimo di Daniele Scalise, edito da Mondadori) fu una tragedia innanzitutto privata, familiare che esplose in un conflitto religioso e in una costante strumentalizzazione politica. Nasconde dentro di sé la tragedia di un uomo spezzato che – non è spoiler, ma Storia – lo vedrà morire molto anziano, con l’abito talare addosso (anche se ritiratosi ormai in un eremo) e addirittura la forza di vergare un’autobiografia che è forse l’unica sintesi possibile di una vita in cui la violazione e la manipolazione, religiosa e laica, si contaminano con un libero arbitrio che corteggia il plagio (e le scene “funebri” del film ne sono un incredibile sintesi).
Marco Bellocchio, in questa ormai acclarata e longeva seconda giovinezza – parliamo degli ultimi vent’anni, partendo da L’ora di religione – ha trovato, in film anche profondamente diversi tra loro per stile, approccio intellettuale e cinematografico, impeto creativo e origine, la capacità di andare incontro alle storie e spessissimo alla Storia, recentissima e passata, con urgenza, rintracciabile anche in un’estetica che pur non perdendo in qualità ha guadagnato in fluidità ed essenzialità, tanto da fargli toccare, in molte scene, momenti alti di cinema di genere (anche, persino, bellico).
Rapito, a suo modo, è una summa dell’ultimo Bellocchio, per l’impegno produttivo di scene che hanno la poesia e l’impatto del grande cinema – dalle sequenze di guerra a quelle poetiche e quasi coreografate del nascondino mischiate all’assedio allo stato pontificio – ma anche per quella sua capacità di accostare dogma e dubbio come fratelli inseparabili, costantemente obbligati a percorsi paralleli e conflittuali, in cui il corto circuito doloroso e potentissimo è dato dalla loro contaminazione, apparentemente e teoricamente impossibile ma umanamente inevitabile.
Il cast del film di Marco Bellocchio in concorso al Festival di Cannes
Sorprende ed entusiasma la sua capacità di sottrarti qualsiasi certezza, come intenerisce la specularità tra l’opera e alcune delle sue lotte e dei suoi dolori privati. La madre interpretata di Barbara Ronchi (che ha vinto il David di Donatello per Settembre lo scorso 10 maggio e sta facendo di tutto per continuare a meritarselo), nella sua ostinazione identitaria che va oltre il suo amore totalizzante (o che ne è, probabilmente, semplicemente complementare), assomiglia a molte figure materne bellocchiane e a parte del ritratto che possiamo aver tratto di quella vera dai suoi racconti cinematografici.
E ancora la famiglia Mortara è anche numericamente (quasi) un riflesso della sua, così come lo scontro affettivo e ideologico tra fratelli.
L’onestà intellettuale ed emotiva cristallina con cui affronta una vicenda apparentemente limpida nelle sue ragioni e nei suoi torti, riuscendo a darne una profondità squassante, è il segreto di un film che lascia allo spettatore la possibilità di indignarsi e disperarsi, costruendo uno spazio emotivo in cui chi guarda è parte del racconto.
Il merito, senza dubbio, è delle interpretazioni maschili: la fede incrollabile dell’inquisitore Fabrizio Gifuni, figura a suo modo titanica nella sua implacabilità; la fragilità quasi fanatica del ragazzo Leonardo Maltese; la struggente, lacerante lotta per riavere il figlio del padre Fausto Russo Alesi rappresentano tre tappe di un viaggio dentro l’orrore di due religioni che sacrificano un’anima, che invece dovrebbero proteggere e salvare, sull’altare di un’identità vuota. Che sia una croce al collo o una kippah a segnarla, che sia, anche nel momento estremo, motivo di divisione tra chi mai dovrebbe separarsi, figlio e madre.
Il regista di Bobbio mostra la sua grandezza nelle scene madri – ancora affidate a Fausto Russo Alesi che di nuovo, dopo Cossiga, dà corpo, anima, fisicità a un dolore represso, a una missione in partenza perdente -, a quella iniziale, che richiama quello di Giacobbe ed Isacco a quella del tribunale, come se davanti a Dio e alla legge lui si arrenda, sfinito. Lo fa in quelle più giocose, eleganti, quasi danzanti, aiutate dal montaggio di Francesca Calvelli (come in Esterno Notte, ci sono almeno tre stili diversi per ritmo e concezione nei tagli) e Stefano Mariotti e dalla fotografia di Francese Di Giacomo, che giocano la loro partita nella scenografia ambiziosa e riuscita di Andrea Castorina.
Rapito può sembrare un film senza tempo, anacronistico, pensando al pontefice attuale – a cui, non a caso, il regista ha inviato il film – ma non parla (solo) di una guerra di religione, ma delle nostre derive identitarie, della nostra infantile ricerca dell’appartenenza in qualcosa di rassicurante che partorisce quasi sempre l’orrore, nel nostro egoismo di vittime che spesso ci fa dimenticare chi davvero lo è.
In questo Rapito è tutto nella monumentale prova di Fausto Russo Alesi, in quelle frasi che quasi rischi di perderti, perché sussurrate o spezzate, da quel “non potevo fare di più, vero?” dopo il primo incontro con il figlio post rapimento al suo volerlo proteggere, al suo, chissà, immaginare di ripudiare se stesso e una strategia cinica per riappropriarsi di ciò che è suo (perché Edgardo è nelle mani di tutti, tranne che del padre, un trofeo) perché un genitore può uccidere la propria felicità per la serenità di un figlio.
E in lui trovi il senso della volontà di Steven Spielberg di farne un film, ne avrebbe fatto un Munich spirituale, ma non ha retto all’impossibilità del farlo in italiano – sfumatura linguistica e culturale imprescindibile – e di dover fare i conti una volta di più e, forse, in maniera ultimativa, con la sua comunità e la sua identità.
Nel film, infine, trovi pure il Bellocchio iconico e iconoclasta, quello che in Esterno notte, in una serie, ci ha regalato scene che potremmo rivedere separate dal resto, tanta potenza espressiva e sì, anche politica, hanno, come d’altronde in tutta la sua cinematografia (quanto si assomigliano il Donato Placido-Egidio Picciafuoco de L’ora di religione che bestemmia con il Momolo che si batte in testa disperato i pugni?).
Lo Scazzocchio di Paolo Calabresi – negli ultimi anni l’hanno finalmente capito che sotto gli straordinari d’Aprile c’è un attore drammatico eccellente – che si umilia e si piega di fronte al Papa (Paolo Pierobon, eccellente) ne è solo un esempio. Fulgido e impietoso.
Rapito torna indietro di 165 anni per parlare al presente di chi ha il coraggio di mettersi in discussione, è l’eterna lotta tra dogma e dubbio, che in fondo altro non è che il fulcro pulsante del cinema di Marco Bellocchio che i suoi pugni in tasca continua a tenerli serrati anche dopo 60 anni di carriera.
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