Piazza del Popolo. Un luogo sperduto dell’Eur, dopo il Palazzo dello Sport. Il Barberini quando era un cinema, non una multisala. Il Cineclub Tevere, poi Labirinto, vicino Piazza dei Quiriti. Via delle Zoccolette, dove a fine anni 80 passai qualche mese con Laura Betti al Fondo Pasolini. Il mio personale rapporto con Pasolini gira intorno a questi e pochi altri luoghi.
Personale non perché lo abbia conosciuto, ma perché con Pasolini non c’erano vie di mezzo. Come avrei capito più tardi, in tutto quel che faceva ci metteva il corpo. Non “tutto sé stesso”, che è una frase fatta, no, proprio il corpo. Senziente, pulsante, desiderante. E ostinatamente vulnerabile.
Era questo che ne faceva un caso a parte. Non un regista fra i tanti che andavo scoprendo da adolescente, ma una persona tutta intera. Inesauribile per giunta. I suoi film. I suoi libri. I suoi articoli, le sue battaglie, la sua vita e poi la sua morte. Se oggi torno su quel periodo aurorale, e sulle due sole volte che l’ho incontrato, è perché allora il sentire prevaleva in tutta innocenza sul sapere.
Scoprire dei film o degli autori, lo penso da sempre, non equivale infatti a saperne tutto ciò che si può. La passione per il cinema, specie da ragazzi, somiglia all’innamoramento e comporta una paradossale dose di cecità. Non importa di chi ti innamori. Importa la tempesta, il fervore, le libere associazioni. Il resto viene dopo e fa anche paura. Mi piacerà ancora quella persona sapendo chi è, da dove viene, che lavoro fa? La amerò di più, di meno, alla follia? Col cinema all’inizio è proprio così.
Con Pasolini lo era anche di più, tanto che ricordo ancora bene quella volta che mi passò davanti nella sua Giulia GT in Piazza del Popolo. Non so se avessi già letto Una disperata vitalità, non credo, le poesie devo averle lette dopo la sua morte; quindi, la sensazione di averlo visto proprio così, come si ritrae in quei versi citatissimi, è successiva, ma so che vedermelo passare davanti dentro la sua Giulia me lo rese ancora più mitico e insieme vicino.
Lo avrei rivisto di persona una volta sola, uno o due anni dopo, quando col mio amico e compagno di scuola Emiliano leggemmo un annuncio sul giornale. Pasolini cercava ragazzi sotto i 20 anni, magri e bruni se ben ricordo, per il suo nuovo film. Non so se l’annuncio precisava il titolo ma sto parlando di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Così Emiliano ed io, con i nostri capelli lunghi, i fisici efebici, le facce da bravi ragazzi che qualche film di Pasolini l’avevano visto a scuola o al cineclub, un pomeriggio ci ritrovammo in mezzo a un gruppo di ragazzi di vita, ma noi li chiamavano coatti, urlanti frasi irripetibili davanti alla Pea, la produzione di Alberto Grimaldi, in viale dell’Oceano Pacifico, al confine fra città e campagna, quel confine che una volta a Roma era così frequente.
Pasolini fu poco più che un’apparizione. Dopo una lunga attesa gli passammo davanti con mille altri. Ci disse “Grazie” con la sua vocina educata. Grazie e avanti il prossimo. Neanche due secondi per guardarci. Non cercava tipi come noi. Ma questo lo avrei capito molti mesi dopo in un posto lontanissimo da quella terra di nessuno che sembrava veramente uscire da un suo film su cui centinaia di coetanei, appartenenti a un mondo visto fino a quel giorno solo al cinema, gridavano al poeta frasi sconce.
Un bel momento della verità, a ripensarci. Una di quelle immagini che ti si cristallizzano dentro e lavorano, mentre poco a poco scopri qualcosa sul tuo oggetto d’amore. Perché Pasolini era e sarebbe rimasto per me un oggetto d’amore perfino irragionevole. Niente mi emoziona più di Accattone, de La Ricotta, di Che cosa sono le nuvole?, con quella Roma così vicina e così lontana alla mia che urlò, bestemmiò e cantò ancora una volta nel suo cinema per poi sparire o riapparire trasfigurata in film fatti da epigoni e compagni di strada, dal primo Bertolucci (La commare secca) a Sergio Citti.
Anche se quello, lo so bene, è solo il primo Pasolini. L’altro, quello che se ne va in cerca del mito in Africa, nell’antica Grecia o nella Napoli del Decameron, avrei cominciato a capirlo solo più tardi, quando il cinema era definitivamente uscito dai fatti naturali per collocarsi tra i fatti culturali, che è un’altra faccenda. La lezione definitiva però Pasolini me l’avrebbe data circa un anno più tardi, non a Roma ma a Parigi, dov’ero appena arrivato per studiare cinema con la sventatezza dei miei 17 anni (allora usava mandare i figli precoci a scuola prima) e con la complicità di un amico e compagno di classe, il futuro scrittore Valerio Magrelli.
Non so se Valerio se ne ricordi, non glielo ho mai chiesto, a pensarci bene non so nemmeno in che zona di Parigi fossimo. Ma so che c’era un suo amico, un ragazzo sveglio e non certo perso in confuse ambizioni intellettuali, che quella sera scese con noi nel seminterrato di un caffè per chiamare Roma da un telefono a monete, così chiamò casa e: Ciao mamma come va come stai cosa dici? hanno ammazzato Pasolini? e cosa ha fatto la Lazio? Questa fu la telefonata.
Io caddi quasi per terra, lui voleva sapere cosa aveva fatto la Lazio. Ma non c’era da indignarsi, non era giusto, eravamo noi quelli strani. L’amico laziale rappresentava semplicemente, nel modo più inconfutabile e terribile, la maggioranza silenziosa di cui parlavano tanto i giornali su cui allora leggevamo Sciascia, Calvino, Moravia ma soprattutto Pasolini.
Lo shock insomma fu salutare, ogni ferita è fatta per farci pensare e quella tragedia mai risolta, consumata su un altro spiazzo a Ostia, l’Ostia di Citti, ma per me la spiaggia dove da bambino andavo la domenica con i miei, sarebbe rimasta conficcata per sempre come un chiodo arrugginito nella memoria. Anche se per cominciare a ragionarci dando l’addio all’innocenza e alle illusioni di quell’età, ci sarebbe voluto ancora una volta un film, profezia e insieme commento a quella fine orribile quanto emblematica: Salò naturalmente. L’ultimo film del grande poeta assassinato.
Un evento forse unico nella storia del cinema proiettato in anteprima proprio a Parigi, forse anche per ragioni politiche, a poche settimane dalla sua morte. Il 22 novembre 1975, dicono i libri. Un’anteprima mondiale a Palais de Chaillot, sede allora della Cinémathèque Française, che sarebbe diventata la mia seconda casa.
Potevamo mancare un appuntamento del genere? No naturalmente. Conoscevamo qualcuno che potesse procurarci un invito? Sempre no naturalmente, ma non ci saremmo arresi per questo. Così quella sera, da bravi italiani, arrivammo a Trocadéro con la metropolitana, superammo senza particolari difficoltà i timidi sbarramenti messi a difendere quella serata di gala, infine ci trovammo davanti a un ragazzo come noi che ci chiese gli inviti e qui, o meravigliosi anni Settanta, dicemmo semplicemente la verità. Siamo italiani. Siamo qui per studiare cinema. Dobbiamo assolutamente vedere questo film.
Un’occhiata d’intesa ed eravamo già dentro. Se ricordo bene, la memoria fa strani scherzi, nella fila davanti a noi c’erano Sophia Loren e Ursula Andress (Valerio giura che lui era seduto accanto a Ursula Andress, ma sapete come sono i poeti). La gioia infantile per la bravata andava mescolandosi alla solennità del momento quando di colpo fu annientata dal film, come un cocktail infettato da una dose massiccia di veleno.
Ricordo i titoli di testa, Bodoni nero su bianco, una lapide. Ricordo le citazioni in esergo, Barthes, Blanchot, Klossowski, forse altri. Poi una specie di lungo lampo bianco, un’infinita dissolvenza in cui galleggiavano frammenti di puro orrore. Vorrei poter dire come reagì quella sala in abito da sera. Vorrei avere avuto già allora un taccuino in tasca. Vorrei ma non ricordo. Non so neanche cosa ci dicemmo Valerio ed io quella sera tornando a Montmartre. So che qualcosa cominciò a cambiare per sempre. Sì, bisognava venire a Parigi per capire un po’ meglio Roma.
Questo articolo è pubblicato nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, dedicato a Roma.
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