Ci sono opere, letterarie e cinematografiche, come Il Gattopardo, che fanno la storia. Che entrano nell’immaginario, che cambiano il nostro modo di esprimerci inserendo nei nostri discorsi, nella nostra mentalità parole e ragionamenti che fotografano un mondo. Questo lungometraggio in costume, tra i più belli di Luchino Visconti, probabilmente ancora di più del capolavoro di Tomasi di Lampedusa seppe racchiudere il senso profondo dell’anima di un paese attraverso il racconto di un piccolo mondo antico, aristocratico e solo apparentemente decadente.
“Tutto deve cambiare perché tutto resti come prima” è una frase che si riferisce alla divisione in classi di una Sicilia arcaica che si attaglia perfettamente all’Italia moderna, a un paese che non è capace di fare rivoluzioni e che maschera da ribellioni estemporanee al potere, avvicendamenti al vertice dello stesso. Una frase usata ormai come nel gergo comune, soprattutto politico. Si pensi solo che persino Ursula Von Der Leyen, al social summit di Oporto, la usò di fronte al mondo intero, peraltro in un’accezione raramente intesa in precedenza.
Ma al di là dell’importanza antropologica e politica de Il Gattopardo, il suo valore estetico e cinematografico rimane tuttora attualissimo e straordinario, per la sceneggiatura fenomenale che ha consegnato alla storia di quest’arte dialoghi iconici e per il talento cristallino di Visconti che ci ha mostrato, in quest’opera, momenti di assoluta bellezza, come quello del ballo.
Eppure questo caposaldo della cinematografia italiana e mondiale deve una delle sue intuizioni più riuscite e determinanti al caso e all’esperienza e al fiuto di un produttore come Goffredo Lombardo. Come scoprirete dal video aneddoto di Antonio Monda, infatti, inizio di una collana di The Hollywood Reporter Roma – “Un’altra storia” – per il ruolo del principe di Salina il cineasta milanese aveva immaginato di scritturare due mostri sacri della recitazione, in quel momento in grandi difficoltà di salute. Fu appunto il suo produttore a suggerire Burt Lancaster, nella diffidenza viscontiana che lo definì in modo sprezzante “un cowboy”.
Bastarono pochi giorni di set, però, per far cambiare idea al regista e per far nascere una splendida amicizia oltre che un sodalizio artistico che fu determinante per proiettare la loro opera, e collaborazione, nell’immaginario collettivo.
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